L’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire ,
ha avuto qualche giudizio severo: eccesso di autocitazioni non sempre freschissime, compiacimenti, una cinefilia un po’ logora, morettismi. Giudizi raffinati, a volte anche troppo per chi al cinema va, come me, con innocenza cioè solo per guardare il film, e poco più. Il sol dell’avvenire l’ho visto quindi in un modo diverso da quello di chi durante la proiezione analizzava criticamente inquadrature e montaggio. Ho sorriso un po’, sul finale ho anche avvertito una leggera velatura sulla cornea, fosse merito della storia o debolezza dell’età. Scalfari negli ultimi tempi diceva che, con gli anni, si commuoveva anche vedendo sfilare i carabinieri col pennacchio.
A me del film ha interessato principalmente l’aspetto politico ovvero la rivisitazione, alla Moretti, della rivolta ungherese dell’ottobre 1956. In base al noto principio che la storia non si fa con i se ma film e romanzi sì, il regista s’è creatouna conclusione controfattuale immaginando l’Unità , organo del partito, che esce col titolo a tutta pagina: Urss addio.
Perché nella realtà storica quel titolo non c’è mai stato? Ho parlato più volte di quei fatti con Alfredo Reichlin, vicino di casa nella campagna umbra, autorevole dirigente del Pci avendo anche sfiorato, un paio di volte, la segreteria. Non ci fu, diceva, perché la nostra principale preoccupazione era di tenere insieme il partito, data anche la forte tendenza frazionistica della sinistra italiana. La forza del Pci era nei numeri, il solo strumento di cui disponessimo per contrastare una supremazia democristiana che avrebbe potuto essere tentata di degenerare. Del resto, aggiungeva, abbiamo poi visto lo stesso timore nella cautela di Aldo Moro che stava portando il suo partito verso una collaborazione col Pci con movimenti umanamente impercettibili. C’era poi il problema di Stalin. Vero che nel febbraio di quel 1956 il segretario del Pcus, Nikita Krusciov, al XX congresso del partito aveva denunciato il culto staliniano della personalità avviando così il nuovo corso. Ma Stalin, diceva Reichlin, per le masse era rimasto unmito. La giaculatoria«Hada veni’ Baffone» riassumeva in uno slogan popolare l’ingenua speranza di maggiore giustizia sociale. Intaccare i miti può essere pericoloso. Al limite era più facile farlo in Unione Sovietica, dove avevano pesato gli errori e orrori del dittatore che non nell’Europa occidentale dove Stalin era ancora considerato il “piccolo padre”.
Ricordo, tra l’altro, che nel 1956 fu proprio il settimanale L’Espresso a far circolare, primo in Italia, il Rapporto Krusciov che Palmiro Togliatti aveva tenuto in un cassetto.
Un altro fattore che ostacolò la scelta immaginata da Moretti fu la cattiva reputazione che, negli ambienti della sinistra (non solo del Pci), aveva il termine “socialdemocratico”.
Nel 1959, la sinistra tedesca, a Bad Godesberg, sceglierà di abbandonare l’ideologia marxista e la via rivoluzionaria al potere per scegliere le riforme e l’economia di mercato. In Italia questo non fu possibile anche perché, tra molte altre cose, pesava l’esperienza non riuscita del partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat. Si sentiva spesso ripetere allora il termine socialdemocratico trasformato in socialtraditore.
Accuse veementi, ignoravano ciò che più tardi sarebbe diventato chiaro: le riforme socialdemocratiche del secondo Novecento avevano contribuito a far rinascere l’Europa, Italia compresa, dalle ceneri della guerra.
Vent’anni dopo quel 1956, questo quotidiano ha poi contribuito ad avviare il processo che allora era mancato. La Repubblica nacque filosocialista. Il primo numero (14gennaio 1976) ha in primapagina un’intervista di Scalfari all’allora segretario del Psi Francesco de Martino. Poi la linea cambiò con il favore (quasi) unanime del gruppo dirigente. Come Scalfari ha scritto più volte, il giornale cercò di contribuire al trasferimento del Pci sulla riva della socialdemocrazia europea.
È difficile raccontare tutte queste cose in un film. Moretti ha comunque avuto il coraggio di rievocarlo quel drammatico passaggio. Direi non con nostalgia, c’è poco da essere nostalgici, piuttosto con il rimpianto che meritano le occasioni mancate.