Il conflitto in Sudan rischia di durare. Malgrado gli attori internazionali coinvolti siano numerosi e in queste ore molti tentino di mediare, si tratta di una resa dei conti tra soci dell’ex presidente Omar al Bashir attualmente detenuto. Bashir ha governato il paese per quasi trent’anni (dal 1989 al 2019) inventando una particolare forma di governo militar-islamista che gli ha permesso di durare appoggiandosi sia sul movimento riformista islamico dei salafiti che sull’esercito.

Come in altri paesi arabi, quest’ultimo rappresenta un grosso pezzo dell’economia pubblica e si sente l’unica istituzione a poter rappresentare lo stato, malgrado che sin dalla sua indipendenza il Sudan sia stato il teatro di una vivace lotta politica con numerosi partiti. Le proteste popolari, la crisi economica e l’erosione delle estenuanti lotte intestine, hanno condotto i due principali sostegni di al Bachir a farlo cadere nel 2019.

Da una parte l’esercito sta tentando di liberarsi dalla contaminazione islamista che lo ha reso indigesto ai suoi vicini (soprattutto egiziani). Dall’altra gli ex miliziani janjaweed – riconvertiti nelle Rapid support forces (Rsf) – utilizzati da Bashir per domare la ribellione nel Darfur, desiderosi di cancellare l’oscura reputazione di “diavoli a cavallo” massacratori di civili.

LE DUE ANIME

Al Burhan e Dagalo detto Hemedti – rispettivamente presidente e vicepresidente – rappresentano queste due anime in cerca di riscatto politico. Per un po’ le cose sono andate bene: i due hanno consolidato un modus vivendi, concentrandosi negli affari e creando proprie alleanze internazionali. Il presidente ha ricucito con l’Egitto e con l’Etiopia; il suo vice con i paesi del Golfo e stretto alleanza con il generale libico Haftar e con il Ciad. Entrambi hanno avuto contatti coi russi.

L’unica pressione contraria per entrambi viene dalla società civile che continua a insistere sul ritorno di tutti – militari e miliziani – nelle caserme. Cosa ha mandato in frantumi il patto? Ancora non è chiaro ma la tesi più accreditata è che una parte dell’esercito – infiltrata da elementi islamisti del precedente regime – si sia opposta alla normalizzazione delle milizie, che sarebbero dovute entrare nei ranghi regolari.

C’è anche la possibilità che alcuni alti ufficiali non abbiano apprezzato il fatto di dover condividere le ricchezze del paese con gli “intrusi” o che questi ultimi non ne abbiano accettato le condizioni. Certamente è in atto il tentativo degli ex islamisti di creare il caos per ritornare in auge. In questo quadro la notizia di un “golpe russo” risulta falsa. Non è nemmeno chiaro chi abbia iniziato ed è difficile prevedere le conseguenze degli scontri. Secondo gli accordi duramente negoziati, la costituzione di un esercito unificato e posto sotto l’autorità di un governo civile, avrebbe messo fine a circa cinquant’anni di governance militare.

LE VIOLENZE

Tuttavia finché durano le violenze vengono meno le speranze di una transizione verso la democrazia. Gli attuali combattimenti potrebbero gettare il paese in una nuova guerra civile prolungata, dopo quelle del sud, dei Beja a est e del Darfur.

Sia Hemedti che Burhan posseggono le alleanze, le risorse militari ed economiche per resistere a lungo. Se l’esercito regolare è più forte, e probabilmente riprenderà il controllo della capitale, Hemedti ha la capacità di arroccarsi in una parte di paese. Nemmeno la tregua concordata per l’Aid el Fitr, la più grande festa musulmana che chiude il Ramadan, ha retto, ma ha invece offerto l’occasione per evacuare i cittadini stranieri da Khartoum. Gli Stati Uniti hanno completato le operazioni sabato notte, i francesi le hanno iniziate ieri mattina, e Reuters ha dato notizia che un convoglio diplomatico francese è stato attaccato. Sempre sabato l’Arabia Saudita ha dichiarato di aver evacuato 157 sauditi e persone di altre nazionalità, mentre ieri pomeriggio anche il ministero della Difesa ha detto di aver avviato l’operazione di evacuazione dei nostri connazionali. Numerosi sono i protagonisti internazionali preoccupati per le vicende sudanesi: l’Egitto che sta aiutando al Burhan con l’aviazione; l’Arabia Saudita che cerca di assumere un ruolo guida nella regione ma ha usufruito dei combattenti delle Rsf nella guerra in Yemen; gli Stati Uniti che da sempre collaborano sull’antiterrorismo; Israele che aveva quasi definito l’adesione sudanese agli accordi di Abramo; l’Etiopia che non vuole instabilità frontaliere e ha pendente la questione delle acque del Nilo; la Russia che spera nella promessa di base navale sul mar Rosso (più importante delle miniere d’oro della Wagner); il libico Haftar che teme contraccolpi negativi per il suo potere e così via. Come si vede un coacervo di interessi e paure tale da rendere il Sudan un vero rompicapo geopolitico.