La decisione della Bce di alzare ulteriormente i tassi d’interesse non appassiona certo il pubblico quanto l’esito di una partita di calcio; eppure, è destinata ad avere un effetto assai più profondo sulle nostre vite. Non solo per il livello particolarmente elevato su cui si colloca da ieri il costo del denaro, ma perché Francoforte non fa mistero di ritenere necessaria una stretta di non breve durata. Se fino a qualche mese fa si pensava al ritorno dell’inflazione come a una fiammata che la politica monetaria avrebbe spento con un rapido getto d’acqua gelata (lasciandoci fradici, ma contenti di avere scongiurato il caro-vita), ora è chiaro che l’incendio divampa e che non esistono cure indolori.
Non si tratta, beninteso, di una decisione avventata o necessariamente negativa per l’Italia. L’inflazione post-Covid è figlia essenzialmente di due fenomeni, che hanno fatto sì che la domanda sopravanzasse l’offerta e creasse pressioni sui prezzi: un repentino spostamento dei gusti collettivi verso settori produttivi diversi (chi nel 2019 spendeva in viaggi in Kenya, nel 2020 ha comprato il televisore gigante e la cyclette, nel 2022 è tornato al ristorante e nel 2023 in Kenya) e un’ondata di sussidi pubblici necessari per tenere a galla, e far ripartire, l’economia. Aggiungete una crisi energetica, una guerra in Europa e shakerate a piacere. Se questa è la diagnosi, posto che la Bce non si occupa di oleodotti e di droni, il manuale di economia dice di alzare i tassi per raffreddare la domanda e fermare i prezzi, che è ciò che si cerca di fare. L’alternativa è che il mercato si convinca che l’inflazione al 6% durerà dieci anni e inizi a chiedere il 10% sui titoli di Stato: un lusso che la nostra repubblica non può permettersi, visto che un forte aumento della spesa per interessi getterebbe un’ombra sulla sostenibilità del debito pubblico. Un fardello così elevato che non riusciremmo a rimborsarlo nemmeno utilizzando l’intero reddito nazionale di un anno, cioè saltando tutti insieme i pasti per 365 giorni.
Una decisione non inconsulta, dunque, ma destinata a incidere sul nostro quotidiano. Chi ha comprato la motocicletta finanziandola con un prestito personale atasso variabile dovrà rinunciare alla cena fuori (ammesso che potesse permettersela) per pagare la rata. Peggio ancora, chi stava pensando di cambiare motocicletta potrebbe decidere di tenersi quella vecchia perché ottenere un prestito è diventato troppo caro. Se saranno in tanti a rinunciare alla cena (o alla moto), il calo dei consumi danneggerà la domanda aggregata di beni e servizi: un po’ si vuoteranno i ristoranti e un po’ si riempiranno (di prodotti invenduti) i magazzini.
Un discorso analogo vale per i mutui immobiliari: se la rata va gonfiandosi come una vela al soffiar dell’Euribor cresciuto in due anni di oltre quattro punti percentuali – le famiglie si troveranno costrette a tagliare altre voci di spesa e qualcuno potrebbe anche alzare bandiera bianca, lasciando alla banca un credito impagato. Il mercato delle case, che in molte città ha conosciuto un significativo rialzo, potrebbe fermarsi o rallentare: gli immobili non residenziali, la cui realizzazione è spesso finanziata con debito, potrebbero scendere di valore se il conto della banca si fa più caro. Se il fatturato delle imprese si riduce, anche la borsa potrebbe soffrire di malinconia dopo dodici mesi di prolungati rialzi. I depositanti bancari che ancora si accontentano del “tasso zero” sappiano però che il loro denaro sta diventando sempre più prezioso per gli istituti di credito. Una grande banca spagnola ha da poco alzato al 4% il rendimento offerto sui conti correnti, e molti istituti italiani sono disposti a offrire anche di più, quanto meno sulla nuova provvista o in cambio di un vincolo di durata minimo. Vero è che oltre un quarto va allo Stato, ma ormai puntano verso il 4% anche i rendimenti dei Bot, la cui l’aliquota fiscale è ben più vantaggiosa. Senza aspettare che il governo partorisca una tassa sulle bombette o altre fantasiose misure anti-banche, sta al pubblico riprendersi una parte degli extra profitti realizzati in questi mesi dal settore del credito: senza anatemi ma semplicemente mettendo le gambe ai soldi.
L’autore è professore di Finanza all’università Bocconi