Paolo Russo
Quando Giorgia Meloni ha detto che la sanità è una priorità ma i margini economici sono limitati, Orazio Schillaci ha cominciato a guardare con un po’ più di apprensione il prossimo faccia a faccia con il titolare dell’Economia Giorgetti, che fino a qualche giorno fa gli aveva lasciato capire che si sarebbe potuta anche superare l’asticella dei 3 miliardi da mettere in più sul piatto della sanità.
Il ministro della Salute sa bene che senza risorse aggiuntive si rischia il tracollo, predetto ieri dalla fondazione Gimbe a suon di numeri. Che in larga parte sono poi quelli della Nadef, dove nella tabella a legislazione invariata, ossia senza un qualche intervento della manovra a integrazione delle risorse, il rapporto spesa sanitaria pubblica- Pil è destinato a scendere dal 6,6 al 6,2% nel prossimo anno. Considerando che ogni decimale di Pil vale 2 miliardi è come perdersene per strada qualcosa come 8. E anche a voler lasciare da parte il confronto con la ricchezza prodotta nel Paese, la spesa andrebbe giù da 134,7 a 132,9 miliardi. Questo mentre c’è da mettere mano al portafoglio per finanziare la riforma della sanità territoriale, fermare la fuga di medici e infermieri, ridurre le liste d’attesa che oramai costringono a ricorrere al privato un terzo degli assistiti.
Schillaci lo sa bene e per questo al ritorno delle vacanze al collega dell’Economia aveva illustrato un piano d’azione del valore di 4-5 miliardi. Escludendo da questi però i 2,2 miliardi per il rinnovo del contratto dei medici 2021-24, quello che dovrebbe far recuperare loro la quota di salario erosa dall’inflazione. Tanto per capire, se ne arrivassero tre ma dentro ci fosse da finanziare anche l’accordo di lavoro più il miliardo di ripiano degli sfondamenti di spesa per i dispositivi medici che Giorgetti vuole abbonare alle imprese, il piatto sarebbe comunque vuoto, come impietosamente indicano i numeri della Nadef.
«Veniamo da un periodo difficile ma il nostro Ssn è un patrimonio che va difeso», ha detto Schillaci a Torino al festival delle Regioni. Indicando subito dopo le priorità: «Premiare economicamente e con percorsi di carriera più agili gli operatori del servizio sanitario pubblico ma soprattutto finalizzare le risorse, oltre che a pagare meglio gli operatori, a far sì che questi stessi operino per ridurre le liste di attesa». E su questo un piano c’è già. Consiste nel far fare 5 ore settimanali di straordinario ai medici pagandole 100 anziché 60 euro l’ora. Purché l’extra time sia finalizzato all’abbattimento delle liste d’attesa. Stessa cosa con gli infermieri portando la paga per gli straordinari da 25 a 50 euro l’ora. Ma molti camici bianchi di ore ne fanno già oggi 50 e passa. Per arginarne la fuga Schillaci vorrebbe quindi applicare la flat tax del 15% alla cosiddetta “indennità di specificità medica” che percepiscono tutti gli ospedalieri, per non fare figli e figliastri.
Il ministro ha poi detto che «tutte le prestazioni erogate a carico del Ssn, sia dagli ospedali pubblici che dalle strutture private convenzionate, dovrebbero essere messe in un unico ReCup regionale». Un modo per impedire ai privati il giochetto di chiudere le proprie agende per dirottare poi i pazienti verso i reparti solventi. Costo complessivo dell’operazione anti liste d’attesa circa un miliardo. Se pure per il contratto dei medici si limitasse, come appare probabile, ad una prima tranche da un miliardo, sommando a questo l’altro miliardo e cento necessario per ripianare lo sforamento di spesa per i dispositivi medici, ecco che buona parte della dote su cui fa ancora affidamento Schillaci se ne sarebbe andata in fumo. Nella migliore delle ipotesi, tutta ancora da confermare, resterebbe infatti a mala pena un miliardo.
Troppo poco per sciogliere l’altro nodo: quello della sanità territoriale. Che se funziona male come oggi finisce per intasare gli ospedali, con tutto quel che ne consegue in termini di liste di attesa e caos nei pronto soccorso. Lo stesso Schillaci ha ammesso ieri che senza il personale c’è il rischio che le nuove case di comunità diventino «cattedrali nel deserto». Perché i 7 miliardi del Pnrr servono solo ad alzare le mura dei maxi ambulatori aperti h24 e 7 giorni su 7, i soldi per chi ci lavora vanno ricavati sempre dal fondo sanitario. E ne servono tanti per fare quel che ha in mente il ministro, ossia portare a 38 ore l’orario settimanale degli specialisti ambulatoriali delle Asl che nel 42% dei casi oggi ne lavorano meno di 10 e che sono pagati a tassametro dalle regioni. Così come è un costo portare i giovani medici di famiglia da un rapporto libero-professionale a uno di dipendenza, visto che i vecchi non vogliono lasciare i loro studi. Per non parlare degli infermieri di famiglia, oggi inesistenti. Spese che il governo potrebbe essere tentato di coprire con le cosiddette “razionalizzazioni” di spesa, come il taglio di quel 20% di prescrizioni inutili o lo scarso utilizzo di sale operatorie e posti letto. Tutte cose già tentate in passato ma con risparmi pari a zero.