«Quando sei militare in un campo di battaglia non devi sapere nulla dei nemici che ammazzi – io non ne vado orgoglioso, ma ne ho uccisi molti -, quando combatti la guerra al terrorismo però, devi sapere tutto di ognuno di loro».
Ami Ayalon (Tiberiade, 1945) ha iniziato a capire chi avesse di fronte quando è stato nominato a capo dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani, da allora il suo sguardo è cambiato: «Quando sai tutto del tuo nemico, lui diventa un essere umano, lo capisci, anche se non condividi nulla, alla fine non hai più paura di lui».
Dopo quel periodo (1996-2000) Ayalon, già medaglia al valore militare a 24 anni, è stato molto altro: candidato alle primarie laburiste, poi ministro sotto il governo di Ehud Barak e, negli ultimi decenni, tenace sostenitore del processo di pace tra Israele e Palestina. «L’equazione è semplice: noi avremo la nostra sicurezza solo quando i palestinesi avranno speranza», ripete instancabilmente.
Ayalon ci ha ricevuto dieci giorni dopo l’assalto di Hamas, nel Moshav, la comunità agricola nella quale vive, vicino Haifa, e l’abbiamo risentito al telefono ieri. La sua preoccupazione di “colomba” si è trasformata in amara costernazione: «Hanno ucciso bambini, donne, li hanno bruciati, è stato un massacro», mentre sull’intervento di terra pronuncia oggi parole di “falco” quasi lottando contro se stesso.
Un’operazione di terra dello Tsahal è necessaria?
«Non è solo necessaria, è fondamentale per la sopravvivenza di Israele. Non possiamo lasciare che Hamas controlli i palestinesi a poche centinaia di metri da villaggi israeliani: per quanto alti saranno i nostri muri e sofisticata la nostra tecnologia, troveranno il modo di penetrare di nuovo e ucciderci».
C’è chi teme si trasformi in una guerra contro i palestinesi di Gaza.
«Dobbiamo innanzitutto dire che la nostra guerra è contro il braccio armato di Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam e i leader politici, cinque o sei capi che hanno diretto l’orribile assalto del 7 ottobre. Dobbiamo dire al mondo che non combattiamo l’Islam, ma un’ideologia che non accetta il nostro diritto a creare uno Stato. E poi dobbiamo assicurarci che uno dei parametri sia evitare quante più vittime civili possibili. Quanto meno saranno le vittime, quanto prima arriverà la nostra vittoria e la comprensione delle persone che oggi odiano quello che stiamo facendo».
La decisione di Israele di chiudere le forniture di acqua, elettricità e combustibile a Gaza non va in senso contrario?
«Hamas è un’organizzazione che usa le persone come scudi umani, per questo non le lascia andare a Sud, dove noi gli promettiamo pace, per questo ha costruito le sue posizioni militari nei centri urbani, sotto abitazioni civili. E bisogna considerare che ogni volta che diamo combustibile, non arriva agli ospedali, Hamas lo prende per avere elettricità nei tunnel, ed è il braccio armato che sta nei tunnel, non i civili. Purtroppo, credo che ci saranno vittime civili, è impossibile evitarlo in una zona così popolata. Io non ho risposte, mi chiedo solo se esista un altro modo per liberare ostaggi e distruggere Hamas».
Lei però ha sempre detto che la vittoria non sarà militare.
«Hamas è anche un’ideologia e non si sconfigge con la forza militare, ma contrapponendo un’altra ideologia. Israele ha smesso di farlo dalla seconda Intifada (2000), noi non proponiamo più un orizzonte politico ai palestinesi, se loro pensassero che possono ottenere la loro libertà – con uno Stato palestinese a fianco di uno ebraico – la maggior parte appoggerebbe qualsiasi sforzo per ottenerlo in modo diplomatico, perché in quel modo non morirebbero in strada. Oggi appoggiano Hamas perché si presenta come l’unica organizzazione che lotta per mettere fine all’occupazione e per la libertà dei palestinesi».
Insomma, uno Stato in cambio di pace.
«Noi avremo la nostra sicurezza solo quando i palestinesi avranno speranza, è semplice. Glielo posso tradurre in termini militari: lei non può dissuadere qualcuno dal fare qualcosa se questo non ha paura. Quello che abbiamo visto il 7 ottobre è questo, persone che sono uscite da Gaza in missione suicida, sapendo che non sarebbero tornate, perché non avevano nulla da perdere. Questa è l’equazione, fino a che non la capiremo continueremo a combatterci».