Cari Architetti, attenti agli spigoli
13 Giugno 2022Robert Doisneau
13 Giugno 2022Fine dell’estate 1979. Le squadre Nba, la National Basketball Association, si apprestano a radunarsi per la preparazione atletica. Sta per iniziare una nuova stagione. Nessuno lo sa ancora, ma quel campionato rivoluzionerà la pallacanestro dentro e fuori dal campo. Un esuberante imprenditore immobiliare con la passione per le playmate, Jerry Buss, ha appena acquistato i Los Angeles Lakers con l’idea di mettere in piedi un grande spettacolo. Accanto a lui, sua madre, sua figlia (Jeanie Buss, l’attuale proprietaria dei Lakers), un socio d’affari in preda al panico e Jerry West, il fuoriclasse, il simbolo non solo dei Lakers del passato ma di tutta la Nba, ossessionato dalle sconfitte patite con gli odiati Boston Celtics, incapace di accettare un ruolo definito per il terrore di subire un altro tremendo rovescio.
Rispetto a «The Last Dance» non si indaga il culmine di una carriera ma si parte dagli esordi
JACK MCKINNEY, il profeta, l’allenatore sconosciuto e visionario che immagina un gioco di flusso, deve condurre tutti alla «terra promessa». Come assistente, McKinney sceglie un amico, Paul Westhead, uno che preferisce citare Shakespeare anziché usare il linguaggio da bar dello sport, un loser che è chiamato a salire su un treno che passerà una sola volta, per la gloria o per lo schianto finale. E a completare il quadro, Pat Riley, ex giocatore, disperato, con l’agghiacciante prospettiva di trasformarsi nella copia di suo padre. In quel momento, nessuno avrebbe scommesso su una squadra che destava più di qualche ilarità. Un team che peraltro aveva sotto contratto fenomeni come Kareem Abdul-Jabbar, uno dei più grandi di sempre, e Earvin «Magic» Johnson, l’esordiente, l’astro nascente, il giocatore che con il rivale Larry Bird cambierà la storia del gioco. Prima e dopo il giorno del raduno accadono parecchie cose, la maggior parte delle quali utili per scrivere un libro, Showtime di Jeff Pearlman, che poi a sua volta ispira la serie televisiva, Winning Time, creata da Max Borenstein e Jim Hecht, con Adam McKay tra i produttori esecutivi, in onda su Sky Atlantic. Un prodotto Hbo che immediatamente richiama alla memoria The Last Dance, la serie Espn/Netflix uscita nel 2020. Due narrazioni simili e al tempo stesso molto diverse. Se infatti il documentario a puntate incentrato sul sesto titolo conquistato dai Chicago Bulls è una specie di inno all’epilogo della carriera di Michael Jordan e compagni, Winning Time è il racconto romanzato di un gruppo di persone che nel caos degli eventi riesce a risalire la corrente e a imporsi non solo nel 1979-80, ma per più di un decennio, cioè fino a quando Earvin Johnson non sarà costretto il 7 novembre 1991 a rivelare al mondo intero di essere positivo all’Hiv. Ciò che accomuna The Last Dance e Winning Time è che la vittoria sia uno degli esiti possibili, il risultato da aggiungere a un almanacco.
IN REALTÀ, dietro a imprese come quelle dei Bulls del 1998 e dei Lakers del 1980 (l’anno in cui disputarono le finali con i Philadelphia 76ers) si celano storie umane soggette a casualità pari a quelle che spingono un pallone a spicchi a entrare o a uscire da un canestro dopo tre o quattro rimbalzi. Puntata dopo puntata, Winning Time esibisce i capricci della vita e il continuo sommarsi di bivi che possono condurre al disastro o alla gloria. In un quadro del genere, emergono personaggi folli come Jerry Buss, l’autentico protagonista della serie, che acquista i Lakers in un momento nel quale investire nella Nba significava esporsi al fallimento. E poi Earvin Johnson, il ragazzo di Lansing che sorride anche quando non vi sarebbe niente di cui felicitarsi, un playmaker alto più di due metri che in quel ruolo deve confrontarsi con giocatori apparentemente più agili e veloci. Il rookie spensierato che inizialmente non è ben visto da Kareem Abdul-Jabbar, il veterano che fatica a pensare al gioco perché, fuori dal campo, il mondo non è affatto cambiato, anzi sta per consegnarsi a orribili personaggi come Ronald Reagan.
AGLI ESORDI dello showtime, delle Laker Girls, delle star hollywoodiane in prima fila, appare anche un giocatore come Spencer Haywood in perenne lotta con i propri demoni, con la terrificante storia degli afroamericani. Non per tutti è il momento di vincere. I suoi gesti non diventano azioni riproducibili. Non si producono magliette, non si alimentano i cosiddetti social. Spencer e Kareem avvertono la sconfitta, la solitudine, non si percepiscono come delle icone. Seguendo le curve esistenziali di questa varia umanità, Winning Time racconta una stagione del nostro mondo e non solo della pallacanestro. Forse per questo i Lakers di Shaquille O’Neal, Kobe Bryant e Phil Jackson, pur avendo fornito elementi per una narrazione altrettanto intrigante, in realtà sono meno interessanti. Perché dieci anni dopo lo showtime è rimasto chiuso dentro un palazzo dello sport e nell’effimera virtualità della Rete.