Chiara Saraceno
Il rapporto annuale di Oxfam sullo stato delle disuguaglianze nel mondo quest’anno ha un titolo molto esplicito, “Disuguaglianza: il Potere al servizio di pochi”. Secondo gli analisti di Oxfam, infatti, dai microchip alla farmaceutica e all’agricoltura, «viviamo in un’era di immenso potere monopolistico, che consente alle grandi corporation di controllare i mercati, stabilire le regole del gioco e godere di rendite di posizione senza timore di perdere il giro d’affari».
Ciò avviene in tutti i settori, incluso quello primario, dell’agricoltura. Basti pensare che mentre 25 anni fa il 40 per cento del mercato delle sementi era controllato da 10 multinazionali, oggi questo stesso potere di controllo appartiene a due sole. Come avviene per i farmaci, dove le multinazionali controllano la maggior parte dei brevetti e di fatto impongono i propri prodotti e prezzi anche nelle zone più povere del mondo, ostacolandone la possibilità di ricevere cure adeguate, anche l’agricoltura deve sottostare al potere dei monopoli.
I decisori politici a livello nazionale non solo hanno spesso le armi spuntate rispetto ad aziende sfuggenti dal punto di vista della loro collocazione residenziale e alla competizione dei cosiddetti paradisi fiscali, ma spesso favoriscono l’accumulazione concentrata di ricchezza con politiche fiscali fortemente squilibrate a favore delle rendite finanziarie e con la riduzione delle imposte societarie.
Prelievo ridotto
L’aliquota media sui redditi societari dal 1980 si è più che dimezzata nei Paesi Ocse passando dal 48% nel 1980 al 23,1 per cento nel 2022. Si è anche ridotto il prelievo sugli utili distribuiti agli azionisti e sulle plusvalenze. Di conseguenza, la ricchezza dei grandi ricchi è aumentata notevolmente, mentre una larga fetta di lavoratori ha visto il proprio potere d’acquisto ridursi in termini reali e il lavoro povero, perché poco pagato e/o perché a termine o a part time involontario, è aumentato, accompagnato dall’indebolimento delle organizzazioni dei lavoratori.
Questo andamento generale vale anche, per alcuni aspetti in modo accentuato (ad esempio la perdita di potere d’acquisto dei salari), per l’Italia. Nei 23 anni intercorsi tra l’inizio del nuovo millennio e la fine del 2022, le quote di ricchezza nazionale netta detenute rispettivamente dal 10% più ricco e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente.
La quota di ricchezza detenuta dal top-10% è cresciuta di 3,8 punti percentuali nel periodo 2000-2022, mentre la quota della metà più povera degli italiani ha mostrato un trend decrescente, riducendosi complessivamente nello stesso periodo di 4,5 punti percentuali.
Non solo, il Rapporto osserva che tra i paesi Ocse l’Italia si colloca oggi ai primi posti per la disuguaglianza di reddito disponibile. Dopo un periodo di riduzione tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, le disparità reddituali sono infatti cresciute sensibilmente all’inizio degli anni Novanta, rimanendo a un livello elevato fino al 2015 e aumentando ulteriormente nel 2020.
Meccanismo inceppato
Si aggiunga che la persistenza intergenerazionale della povertà è molto più intensa in Italia rispetto alla maggior parte dei Paesi europei, a motivo della debolezza, quando non inesistenza, dei meccanismi che in un paese democratico dovrebbero aiutare a rompere il circolo vizioso della povertà, dalla scuola, al funzionamento del mercato del lavoro, al sistema di welfare.
In questa prospettiva, il Rapporto è molto critico nei confronti della riforma del sostegno a chi si trova in povertà promulgata dall’attuale governo, perché, senza correggere se non marginalmente le criticità del Reddito di cittadinanza, ritorna a forme di categorialismo spinto da cui l’Italia stava cercando di uscire a fatica e tardivamente e che lasceranno senza protezione, o con protezione inadeguata, centinaia di migliaia di famiglie e persone.
I motivi dell’aumento della disuguaglianza non sono tuttavia imputabili solo al governo attuale, anche se questo li ha in parte accentuati, ad esempio con l’allargamento delle possibilità di ricorso a contratti di lavoro non standard e ai voucher, l’ulteriore frammentazione di un sistema fiscale gravato da iniquità e intrasparenza, la riedizione dei condoni, l’incoraggiamento di fatto alla parziale evasione fiscale.
Ma la storia è più lunga e chiama in causa in misura maggiore o minore tutti i governi che si sono succeduti dall’inizio del secolo e anche prima: appunto un sistema fiscale frammentato e intrasparente, che tassa più il lavoro che il capitale mobiliare e immobiliare, in un paese in cui la quota dei redditi da lavoro sul Pil è in calo da anni e il prelievo sul lavoro supera di tre volte quello su profitti, rendite ed interessi, tassazione sull’eredità irrisoria e largamente inferiore a quella applicata in altri paesi a noi vicini. Chiama in causa anche le responsabilità delle imprese in un mercato del lavoro, ove dagli anni ‘90 del secolo scorso è aumentato a dismisura, anche per la debolezza dei sindacati, il lavoro non standard, specie tra le donne e i giovani.
Retribuzioni basse
Secondo gli estensori del Rapporto, infatti, il principale canale che ha prodotto l’incremento della disuguaglianza retributiva tra il 1991 e il 2021 è rappresentato, nelle conclusioni degli autori dell’analisi, dall’aumento della dispersione dell’intensità del lavoro. Una più marcata correlazione tra le retribuzioni settimanali e il numero di settimane lavorate ha anche contribuito ad ampliare i divari tra salari bassi e quelli alti.
Il Rapporto avanza alcune proposte per interrompere la tendenza alla crescita dei divari. Difficile che questo governo le prenda in considerazione.
Ma senza affrontare seriamente e sistematicamente le crescenti diseguaglianze la stessa sostenibilità diventa difficile.