Lo schiaffo alla sanità e i silenzi di Schillaci
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26 Gennaio 2024Il commento
di Antonio Polito
Se ancora Israele ha bisogno, e ne ha bisogno, che i popoli e i governi del mondo civile stiano dalla sua parte e ne difendano il diritto a esistere in pace, sancito da un voto delle Nazioni Unite. Se Israele vuole ancora, e certo lo vuole, che i cittadini ebrei d’Italia, Francia, Germania, e di tutte le altre nazioni che da secoli ospitano la diaspora, non siano di nuovo vittime di ondate di antisemitismo, mascherato o no; allora, per amor di Dio, fermatevi.
La guerra ad Hamas è al centododicesimo giorno. L’obiettivo dichiarato è: eliminare Hamas. Ma se il conflitto continua, vuol dire che Hamas non solo non è ancora eliminata, ma è anzi tuttora in grado di combattere, resistere, rispondere al fuoco, mentre si rintana nella «sua» Gaza sotterranea, lasciando a morire quelli della Gaza di sopra, i civili, gli innocenti. Nonostante l’attacco più letale e sanguinoso dalla nascita di Israele, e anche il più indiscriminato, si calcola che i combattenti di Hamas eliminati siano meno di un terzo. Ma le vittime sono già 25 mila. Anche ammesso che le armi di distruzione siano in grado di uccidere tutti i militanti di Hamas sulla faccia della terra, quante altre donne e bambini dovranno morire prima? E dopo una tale carneficina, volete che non spunti un’altra Hamas, decisa a prendersi l’ennesima vendetta? E con che forza riusciremo allora noi, amici di Israele, a difenderne le ragioni in Occidente?
Per quanto ci riguarda, sappiamo tutto e non dimentichiamo niente.
Sappiamo che Hamas con una ferocia degna dei carnefici nazisti ha razziato, stuprato, rapito, assassinato, milleduecento israeliani solo ed esclusivamente per scatenare questa guerra. Nella convinzione che più vittime palestinesi avrebbe fatto l’ira di Israele, e più i terroristi avrebbero conquistato stima e popolarità nel mondo arabo. Un calcolo cinico, ma finora riuscito: i capi di Hamas portano per questo sulle loro spalle, per intero, la responsabilità della tragedia che sta vivendo quello che chiamano il loro popolo. E del resto l’aveva detto con chiarezza Ismail Haniyeh, dal suo appartamento deluxe a Doha: «Abbiamo bisogno del vostro sangue… il sangue di donne, bambini, anziani…». Quando hanno attaccato, il 7 ottobre, sapevano benissimo quanto sangue avrebbero avuto. E lo volevano.
Sappiamo anche che il tentativo di bollare come «genocidio» la reazione di Israele, di ritorcere contro gli ebrei l’accusa di «pulizia tecnica», di usare una frase sull’Olocausto di Primo Levi per mobilitare un corteo filo-Hamas nel giorno del ricordo dell’Olocausto, è uno scempio, perché mette la guerra di auto-difesa di Israele, per quanto criticabile possa essere, sullo stesso piano del progetto razziale di sterminio nazista di tutti gli ebrei d’Europa. Sappiamo anche che la nostra cultura, la nostra civiltà e la nostra democrazia ci impediscono, oggi e per sempre, di poter stare dalla parte di chi si propone la distruzione dello Stato di Israele, e vorrebbe cacciare gli ebrei da tutto il territorio che va «dal fiume Giordano al mare», dunque da ogni angolo del Medio Oriente. E con chi dovremmo stare? Con l’Iran degli ayatollah, con gli «houthi» che nel Mar Rosso sparano sui nostri approvvigionamenti e sulle nostre esportazioni, con i fondamentalisti islamici che si fanno esplodere in mezzo ai loro stessi correligionari?
Sappiamo tutto questo e non lo dimenticheremo. Ma sappiamo anche due altre cose. La prima è che Israele non vincerà questa guerra se non anche sul piano morale, non la vincerà senza il sostegno dei popoli e dunque dei governi degli Stati Uniti e dell’Europa. E la prima pubblica deplorazione della Casa Bianca, per l’attacco a una struttura delle Nazioni Unite piena di rifugiati nella città di Khan Younis, ci dice che quel sostegno può perderlo.
La seconda cosa che sappiamo è che Israele non ha ancora usato l’arma più letale di cui dispone contro Hamas: l’avvio di una trattativa per la nascita di uno Stato palestinese che riconosca lo Stato ebraico. Un’arma contro la quale Hamas potrebbe rispondere solo con un «no», rivelando così anche al suo popolo che non vorrà mai portarlo alla pace.
Tutto ciò richiede certo un cambio di leadership tra i palestinesi, e non sarà né breve né facile, perché loro non possono esprimersi come si può fare invece nelle democrazie. Ecco perché la prima mossa deve venire da Israele, che invece una democrazia lo è, e anche uno Stato di diritto. Oggi quella mossa è impossibile perché il suo premier, Netanyahu, non vuole. Egli ha infatti un evidente interesse personale e politico a far durare la guerra, per allontanare il redde rationem elettorale sulle sue colpe; diciamo almeno fino al voto americano, quando spera che una vittoria di Trump gli ridia le mani libere.
Perciò tutti noi, amici di Israele, dobbiamo sperare il contrario: che cioè la forza della democrazia israeliana faccia il miracolo che le sue forze armate, da sole, non possono fare.