La presidente del Consiglio Giorgia Meloni non pare averla presa bene. Capita l’antifona, ha stoppato la telenovela prima che ci fosse una seconda puntata: “Dopo il pronunciamento dell’Antitrust mi pare che Sgarbi si sia reso conto che la scelta corretta era quella delle dimissioni e quindi le accolgo. Aspetto di incontrarlo a Roma”, ha detto da Tokyo sminando il campo da ogni suggestione. A partire da quella suggerita dall’interessato: in un tentativo di resistenza che qualcuno ha tradotto in mercanteggiamento (Laura Boldrini l’ha definito suq), il quasi ex sottosegretario ha alluso alla necessità che tutti gli altri colleghi di governo si sottopongano alla stessa verifica toccata a lui. Con stoccatina alla premier (pure lei scrive libri e incassa diritti), ma che è parsa indirizzata mica solo a lei o a Gennaro Sangiuliano, l’acerrimo nemico. “Se il governo, per mano di un suo ministro– ripeto: di un suo ministro –, ha promosso una indagine sul conflitto di interessi all’interno del governo – peraltro in base alla lettera anonima di un pluripregiudicato –, è giusto che io chieda all’Antitrust che si estenda l’indagine a tutte le istituzioni, con gli stessi criteri. Non per ritorsione, ma per rispetto delle istituzioni alle cui decisioni io mi sono rimesso. E che tu ti faccia garante della integrità del governo quanto a possibili incompatibilità, se a me non è consentito parlare e promuovere in ogni modo l’arte e le mie idee” ha scritto Sgarbi in una lettera al Corriere della Sera. Ma il tentativo è andato a vuoto: “Sgarbi (Meloni dixit) ha potuto contare su un governo che attendeva degli elementi oggettivi: oggi non si aspetti che quello stesso governo decida per altri con elementi che non sono oggettivi, perché sarebbe obiettivamente un po’ eccessivo”. A ogni modo oggi la premier tornerà a Roma per chiudere la partita con le buone. Di qui a due giorni si riunirà il Consiglio dei ministri per la revoca delle deleghe: fonti governative suggeriscono che se per quella data Sgarbi non offrirà spontaneamente lo scalpo, sarà rimosso, con le cattive, come avvenne nel 2019 per Armando Siri da parte dell’allora premier Giuseppe Conte. Questo per non creare troppe aspettative: ieri di fronte allo scenario dimissioni sì-dimissioni no-dimissioni forse, le opposizioni hanno rincalzato sulla revoca richiesta dalla mozione in calendario alla Camera il 15 febbraio.
Ma per quell’epoca il governo conta di aver archiviato il caso, in un modo o nell’altro. Fine del patema, almeno a Roma. Perché adesso la palla passa all’altro capo dell’Italia: di qui a poche settimane il presidente della Provincia di Trento, il leghista Maurizio Fugatti (che nel 2019 aveva imposto Sgarbi alla presidenza del Mart), deve decidere se lasciarlo a piedi. O farlo raddoppiare: oltre all’incarico a Rovereto (che ora sarebbe retribuito alla grande) c’è in ballo una poltrona che vale oro. Una sorta di ufficio di coordinamento di tutti i musei della provincia, dal Mart al Muse fino al Castello del Buon Consiglio. Una decisione che stavolta però Fugatti deve contrattare con Fratelli d’Italia che gli ha imposto una vice, l’assessora alla Cultura Francesca Gerosa.