La legge è pronta. Si chiama ddl Capitali e ha l’ambizione, tra l’altro, di spianare la strada della quotazione in Borsa alle imprese nostrane, a partire da quelle piccole e medie. Approvato in seconda lettura alla Camera una settimana fa, ora il testo si appresta a tornare in Senato per il via libera definitivo. Il problema, però, è che la cura ricostituente prescritta dal governo Meloni al mercato finanziario italiano rischia di rivelarsi tardiva e quindi, forse, anche inefficace.
Troppo tardi, si lamentano gli addetti ai lavori. E cioè banchieri, imprenditori, analisti e investitori. Il listino di Milano, che non è mai stato un crocevia decisivo nel network globale del capitalismo, sembra aver perso ogni attrattiva per le imprese più giovani e dinamiche. Peggio ancora, i grandi gruppi privati riescono sempre più spesso a farne a meno, come conferma la cronaca di questi giorni. Domenica sera è arrivato l’annuncio di Saras, l’azienda della famiglia Moratti che passerà sotto il controllo di Vitol, una multinazionale del trading di materie prime, e a breve rinuncerà alla quotazione. Lo stesso si appresta fare Tod’s, la griffe di Diego Della Valle, dopo l’offerta d’acquisto di un fondo di private equity legato al colosso della moda Lvmh. Della Valle manterrà il controllo dell’azienda, ma a giochi fatti i titoli non saranno più scambiati sul mercato.
ESODO
È un doppio colpo che fa male alla reputazione della Borsa italiana, ma purtroppo siamo solo alla puntata più recente di una storia iniziata tempo fa. Qualche esempio? Eccolo: Tra il 2022 e il 2023 hanno fatto un passo indietro i Benetton con Atlantia, la società che controllava Autostrade, e poi con Autogrill. A settembre del 2022 gli Agnelli hanno preferito il listino di Amsterdam per la holding Exor. Ancora nel 2022 sono scomparse dal listino Banca Carige, assorbita da Bper, Cattolica assicurazioni comprata da Generali, Cerved group scalato dal finanziere Andrea Pignataro, la banca Finnat dei Nattino, la Coima Res dell’immobiliarista Manfredi Catella e anche la Roma calcio. Il gruppo dei partenti si è ingrossato nel corso del 2023 con un’altra ventina di nomi. Tra questi spiccano per dimensione e notorietà, Dea capital del gruppo De Agostini, la svizzera BB Tech, che però resta a Zurigo e a Francoforte.
Certo, nel frattempo, non sono mancate le new entries. Compresi nomi famosi come Ferretti, il marchio degli yacht sbarcato nel 2023 anche a Hong Kong. Se però si scorre l’elenco delle debuttanti, allora è facile rilevare che nella gran parte dei casi si tratta di aziende di dimensione modesta che hanno preferito l’Euronext growth. Quest’ultimo è il listino, alternativo a quello maggiore, che offre una sorta di scorciatoia verso la quotazione, con procedure più semplici, ma accompagnate da garanzie di trasparenza inferiori per gli investitori, come hanno di recente dimostrato i casi eclatanti di Visibilia e Ki group, le due aziende promosse e gestite a lungo da Daniela Santanchè per poi arrivare al capolinea del dissesto.
IN POCHE MANI
A conti fatti, il saldo tra entrate e uscite in rosso. Alla fine del 2023 le statistiche (fonte Consob) segnalavano 212 società quotate nel listino principale di Milano. Cinque anni prima, nel 2018, la Borsa era popolata da 234 aziende. Il mercato finanziario perde pezzi e appare sempre più concentrato attorno a pochi pesi massimi. Aziende di Stato come Enel, Eni, Leonardo, Poste e Terna valgono, sommate assieme, quasi un quarto della capitalizzazione totale del mercato. Poi ci sono i big della finanza, il terzetto composto da Intesa, Unicredit e Generali, che pesano per un altro 23 per cento circa. In altre parole, otto soli titoli assorbono quasi la metà del listino nazionale.
Anche il confronto internazionale offre indicazioni poco incoraggianti. Piazza Affari, sempre in base alle statistiche della Consob, vale meno di un terzo del Pil italiano, per la precisione il 28,6 per cento. Nel 2019, subito prima della crisi innescata dalla pandemia, lo stesso rapporto si era assestato al 31 per cento. Questi numeri vanno confrontati con il 46 per cento della Germania, mentre Francia, Svizzera e Olanda viaggiano addirittura intorno al 140 per cento.
È evidente, quindi, che la forza d’attrazione del nostro mercato finanziario va diminuendo di anno in anno. Sono rari gli ingressi di peso, mentre le grandi aziende, basti pensare a colossi come Barilla e Ferrero stanno alla larga. Altro caso eclatante è quello della famiglia Del Vecchio, che di fatto ha portato Luxottica a Parigi fondendola con Essilor, già quotata Oltralpe. Oppure Prada, uno delle griffe più note del lusso Made in Italy, che ha preferito il listino di Hong Kong a quello di casa, anche se periodicamente si ripresentano le voci su una possibile seconda quotazione a Milano.
Per dare nuovo impulso alla piazza finanziaria italiana servirebbero regole nuove capaci di attirare le imprese di medie dimensioni, spesso a conduzione famigliare, motore trainante dell’economia nazionale. Questo, come detto, è proprio l’obiettivo dichiarato della nuova legge sponsorizzata dal governo Meloni. Peccato che lo stesso provvedimento contenga anche una serie di norme sulle procedure di nomina dei consigli di amministrazione delle società quotate. Regole che secondo alcuni commentatori potrebbero complicare di molto la gestione delle aziende, tanto da renderle in alcuni casi ingovernabili. Le critiche più feroci sono arrivate dai rappresentanti dei grandi fondi internazionali, gli stessi che con i loro investimenti risultano decisivi per lo sviluppo della Borsa che, così, rischia di trovarsi a corto di carburante. Con buona pace della riforma targata Meloni.