Papa Francesco ha chiesto da settimane il cessate il fuoco, e questo resta un appello fondamentale. Peraltro non è solo il Papa ma anche tanta parte della comunità internazionale a chiederlo. Senza mai dimenticare, sia chiaro, l’orrore del 7 ottobre e la condanna senza se e senza ma di quei fatti e la comprensione del significato che questi hanno generato per il popolo di Israele. Senza dimenticare la richiesta del rilascio degli ostaggi. Bisogna evitare che la violenza produca altra violenza.
Il rapporto con Israele si è però guastato ulteriormente dopo la polemica che ha riguardato il cardinal Parolin, segretario di Stato vaticano.
L’ambasciatore israeliano ha chiarito. Penso che Parolin abbia espresso semplicemente un disagio di tutti gli amici di Israele, che restano amici del popolo di Israele, tanto che condannano ogni antisemitismo e proprio per questo, nell’amicizia, chiedono il cessate il fuoco.
Che rapporto c’è oggi tra la Chiesa e le comunità ebraiche?
Ci sono state delle incomprensioni che a mio avviso erano solo semantiche ma che ci hanno aiutato a tenere in conto la sensibilità del popolo ebraico. Penso che il rapporto non sia andato indietro perché si tratta di solidi legami di amicizia che restano tali anche quando si sviluppa una dialettica.
La settimana ha visto un’escalation con le parole di Macron sull’intervento europeo in Ucraina, Von der Leyen con la richiesta di produrre più armi e la mozione del Parlamento europeo. La preoccupa?
Alcune dichiarazioni sono rimaste tali e non hanno avuto alcun consenso. A volte il silenzio vuol dire non sostegno. Quello che è indispensabile è non rinunciare alla ricerca della pace che non significa buonismo come ha detto con molta sapienza il presidente Mattarella. Infatti è realismo. Non dobbiamo rinunciare a credere che i conflitti si possano risolvere con la via del dialogo per arrivare a una pace giusta e sicura.
In che senso giusta e sicura?
Occorrono gli aggettivi perché il significato di pace può essere interpretato ambiguamente. Giusta, perché rispondente alle legittime richieste di chi è stato aggredito e capace di risolvere tutte le cause; sicura cioè con valide garanzie internazionali.
Ma non è deluso da come la comunità internazionale ha finora gestito la crisi?
Le preoccupazioni e le domande del Papa sono ancora tutte aperte. Abbiamo fatto quel che potevamo, ma dove è finita la “pace creativa”? Solo un’alleanza della comunità internazionale può creare un quadro nuovo indispensabile per favorire la pace.
Il consigliere di Zelensky, Podolyak, riconosce oggi che la sua missione in Ucraina è stata valida. Un riconoscimento tardivo per una iniziativa molto criticata qui in Italia?
Non è il primo. Il cardinal Parolin e io abbiamo ricevuto un’alta onorificenza dal presidente Zelensky poche settimane fa e anche le autorità russe hanno ringraziato per il contributo ai ricongiungimenti familiari. La Santa Sede non ha mai pensato di avere una soluzione in tasca, c’è stata forse una sopravvalutazione dell’iniziativa. Speriamo che il coraggio di papa Francesco solleciti anche altri a non accontentarsi di registrare i problemi ma ad affannarsi per trovare soluzioni.
La missione quindi continuerà?
Sì, continua, soprattutto con il lavoro dei due nunzi a Kiev e Mosca, impegnati sul piano umanitario, dei ricongiungimenti e nel reperire informazioni. Non siamo gli unici, ma cerchiamo di andare nella direzione giusta e di continuare a fare tutto il possibile. Non ci rassegniamo e non ci abitueremo mai alla guerra e alle conseguenze che produce. Vorremmo tra l’altro che tanti bambini orfani o feriti dalla guerra possano venire a passare le vacanze in Italia. È nella tradizione di solidarietà del nostro paese.
Ma vi si rimprovera di non vedere le responsabilità di Putin…
L’errore è pensare che il dialogo significhi cedevolezza. Capire le cause e le ragioni non significa sminuire le responsabilità. La pace la trovi con chi è in conflitto.
L’Osservatore Romano titola sulle spese militari alle stelle: si può parlare di una sorta di lobby del massacro che spinge per la guerra?
La guerra è chiaramente un’economia. Il Papa si è sempre chiesto che rapporto esista tra le guerre e i produttori di armi. Dalla Pacem in terris tutti i documenti pontifici indicano il disarmo come via per la sopravvivenza del pianeta. C’è un bellissimo discorso di Paolo VI del 1970 che chiedeva di abrogare la guerra. Questa aspirazione è ancora più valida oggi, non per ingenuità, ma per rompere la spirale del riarmo.
Cosa bisogna dire ai produttori di armi?
Che è un meccanismo perverso, i produttori di armi chiaramente si ritrovano con il rialzo delle azioni, ma proprio per questo è ancora più pericoloso e c’è bisogno di uno sforzo internazionale maggiore.
È stata oggetto di una campagna forsennata sulla questione dei migranti, ha qualcosa da dire?
La Cei spende 80 milioni l’anno dell’8 per mille per permettere di non partire. Credo che sia tra gli interventi più significativi, fatti con le Ong e i missionari, la tradizione migliore della Chiesa del nostro paese. La caricatura del “li vogliamo tutti dentro” è una banale, rozza e colpevole banalizzazione. La Chiesa chiede solo che vi siano dei criteri per un’accoglienza degna e che la vita di chi è in pericolo sia sempre difesa. È indispensabile la solidarietà di tutta l’Europa. La logica della chiusura produce altre chiusure e i muri alzano altri muri. Abbiamo poi un gran bisogno di manodopera, c’è tanto raccolto rimasto a terra e miliardi non prodotti per questa mancanza. Dobbiamo guardare un po’ più lontano e scegliere il futuro, non subirlo, uscendo finalmente da una logica emergenziale, rispettando diritti e doveri e con una politica che non politicizzi l’umanitario.