Parcheggi a Siena e governo del Centro Storico
16 Marzo 2024David Zwirner
17 Marzo 2024
L’assassino era un assiduo frequentatore dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio. Riceveva pagamenti dal Viminale (allora sede della presidenza del Consiglio). Si era persino fatto stampare biglietti da visita in cui appariva nelle vesti di funzionario dell’ufficio stampa. Fu forse lui stesso a far avere al Viminale, subito, il giorno dopo il delitto, molto prima che venisse ritrovato il corpo, molto prima che Mussolini ammettesse di saperne qualcosa, il passaporto e altri documenti che erano nella borsa sottratta all’ucciso. Tra questi, probabilmente, anche la bozza del discorso a cui stava lavorando in quei giorni. L’assassino negò però sempre che nella borsa ci fosse anche del materiale sull’affaire Sinclair Oil, la brutta storia di tangenti petrolifere in cui era implicato niente meno che il fratello del presidente del Consiglio. Ma di lui non possiamo fidarci più di tanto: cambiava continuamente versione, e ogni nuova versione era una strizzata d’occhio, un avvertimento, una minaccia ricattatoria ai suoi mandanti. Un modo per dirgli in punta di lingua: non dimenticatevi di me, se no racconto tutto.
L’assassinio è quello di Giacomo Matteotti, rapito alla 16.30 circa del 10 giugno 1924, mentre uscito di casa si stava recando alla biblioteca della Camera, per continuare a lavorare al discorso che avrebbe dovuto pronunciare qualche giorno dopo, alla prima seduta della nuova Camera. Il presidente del Consiglio era Benito Mussolini, forte di una maggioranza bulgara, grazie alle nuova legge elettorale. La legge Acerbo prevedeva due terzi dei seggi a chi avesse ottenuto almeno il 25 per cento dei voti, ma Mussolini non ne aveva nemmeno avuto bisogno, il suo listone nazionale di centrodestra aveva ottenuto quasi il 65 per cento. Il capo del suo ufficio stampa si chiamava Cesare Rossi, ex ardito, squadrista milanese della prima ora. L’esecutore materiale, il capo della banda che rapì Matteotti e lo uccise poco dopo sulla stessa lancia nera su cui lo avevano fatto salire a forza, si chiamava Amerigo Dumini. Comandava un reparto della cosiddetta Ceka, la struttura parallela, non ufficiale, a cui veniva affidato il lavoro più sporco. Sarebbe stato lo stesso Mussolini a dargli – non è dato sapere se per celia o per invidia – il nome della polizia segreta bolscevica. Li chiamavano anche “la banda del Viminale”. Non erano alle dipendenze del capo della polizia, il fascista De Bono. Ricevevano ordini dal capo dell’ufficio stampa di Mussolini, e dal segretario amministrativo del Partito fascista, Giovanni Marinelli. Insomma da chi gestiva la propaganda e da chi gestiva i soldi di partito.
Sono cose risapute. Se n’è scritto in decine di libri. Tra i più recenti e documentati: L’oppositore. Matteotti contro il fascismo, di Mirko Grasso (fresco di stampa per Carocci) e il più anziano, più volte ristampato Il delitto Matteotti, di Mauro Canali (Il Mulino). La mostra in corso a Palazzo Braschi, a Roma, Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia, espone, tra i molti documenti, gli originali delle lettere indirizzate da Dumini al proprio avvocato, Giovanni Vaselli. Era riuscito a farle uscire di soppiatto dal carcere, perché Vaselli le recapitasse direttamente a Mussolini. La sua non era una detenzione particolarmente dura. Sempre nella mostra di Palazzo Braschi sono esposte foto che lo ritraggono in cella, seduto ad una tavola imbandita di tutto punto, con tanto di tovaglia bianca. Si faceva mandare i pranzi da un vicino ristorante, spiega la didascalia. Ed è documentato anche quanto per questi lussi la sua detenzione sia costata allo stato italiano. Non è incomprensibile che chiudessero un occhio sui frequenti contatti di Dumini con i complici, anch’essi detenuti, e non facessero troppo caso ai messaggi che inviava all’esterno.
In una delle lettere, vergate con calligrafia di sorprendente nitidezza (sorprendente soprattutto per noi analfabeti di ritorno in calligrafia, irrimediabilmente rovinati dall’abitudine al computer, e, prima ancora, alla macchina da scrivere), c’è una parziale cancellatura sotto la quale è ancora possibile leggere: “Lei deve sapere che […] noi fummo solamente gli esecutori, come Rossi e Marinelli [furono] i semplici trasmettitori. Ma si è capito che stiamo tutti ballando con una mina sotto i piedi? E non gli imputati solamente”. Una successiva lettera, del 23 luglio 1925, è ancora più esplicita. Dumini dice di “aver perso la fiducia” nei suoi mandanti, minaccia in sostanza di spifferare tutto se non si farà qualcosa per tirarlo fuori di galera. “La nostra situazione non ci permette purtroppo altra alternativa – e dobbiamo difenderci perché non intendiamo andare incontro a una terribile ed irrimediabile punizione, per un delitto da noi commesso – certamente – ma che ci fu imposto e che noi eseguimmo – come tanti altri prima di quello – con cieca disciplina e dopo che ci fu garantita in modo assoluto qualsiasi immunità penale”. L’avvocato Vaselli era uomo di fiducia di Mussolini. Per questo la difesa degli imputati era stata affidata proprio a lui. La sua fedeltà sarebbe stata premiata con la nomina a governatore di Roma, prima ancora che il processo andasse in Corte d’assise a Chieti, nel 1926. Fu allora che la città abruzzese si fece la nomea di “città della camomilla”, indifferente a qualsiasi indignazione contro i soprusi del fascismo. Un altro testimone, e inizialmente imputato, ma scomodo, il responsabile dell’ufficio stampa (oggi si direbbe portavoce) Cesare Rossi, sarebbe espatriato clandestinamente in Francia, per poi essere attirato in una trappola dai servizi segreti fascisti e tenuto in galera sino a inizio guerra.
“Dossieraggio”, parola improvvisamente di moda, secondo il dizionario significa “attività di raccolta di informazioni riservate e scottanti su personaggi in vista, da usare in genere a fini di ricatto”. Ebbene, Dumini era un maestro nel raccogliere e diffondere informazioni (e calunnie) sugli antifascisti da eliminare, in Italia o all’estero. Fece intendere che aveva dossier che potevano nuocere anche al suo committente, Mussolini. Il ricatto ebbe effetto. Uscito dal carcere, nel 1933 stilò un memoriale e lo affidò a un cliente americano di suo padre Adolfo, mercante d’arte, perché lo depositasse presso lo studio legale Martin Arnold & Hugh L. Robertson, di San Antonio, in Texas. Era la sua assicurazione sulla vita. L’accordo con lo studio legale texano prevedeva che fosse pubblicato nel caso gli fosse successo qualcosa. E anche questa minaccia sortì il suo effetto.
Nel documento, talvolta citato come “il testamento di Dumini”, non c’era più solo la confessione sui mandanti del delitto Matteotti, ma anche una rivelazione sul movente, che sino a quel momento veniva indicato come punizione dell’avversario politico, come tante altre che l’avevano preceduta, in questo caso sfuggita di mano agli esecutori. Viene fuori ben altro: “La minacciosa presenza di un dossier sul petrolio di cui si temeva la presentazione in Parlamento”. La necessità di sopprimere Matteotti sarebbe nata dalla convinzione che il deputato socialista fosse venuto in possesso di “prove di certi imbrogli in cui si mescolavano in una promiscuità maleodorante e abbastanza lacrimevole un certo affare di petrolio, di borsa e di cambi in cui sembrava essere implicato perfino il fratello del capo del governo”.
Dumini probabilmente non conosceva i dettagli dell’affaire. Ma era ben attrezzato a captare le voci in proposito che circolavano negli ambienti vicini a Mussolini, in particolare le redazioni dei giornali fascisti. L’analisi più dettagliata delle tangenti che sarebbero state passate dalla Sinclair Oil americana al fratello di Mussolini, Arnaldo, e alle casse del Pnf e di altri gerarchi, come ringraziamento per la concessione di diritti di esplorazione in Italia, e nelle colonie italiane, è quella dello storico Mauro Canali. E’ accertato che Matteotti ricevette dai laburisti britannici, durante il viaggio compiuto in Inghilterra poco prima del suo assassinio, copiosa documentazione sulle malversazioni petrolifere, sulla svendita dell’Italia alla compagnia americana da parte dei “patrioti” fascisti al governo. La Sinclair Oil agiva da paravento per il colosso Standard Oil, anch’esso americano. La Anglo-Persian Oil britannica era allarmata dalla concorrenza americana. Per questo motivo avrebbe fatto passare i documenti all’esponente socialista italiano, uno che di conti se ne intendeva e li faceva con grande scrupolo, per far fallire l’operazione. Ci sarebbero riusciti. Allarmato dal turbinio di voci dopo l’assassinio di Matteotti, Mussolini avrebbe deciso di metterci in fretta e furia una pietra sopra.
Il Novecento è zeppo di delitti, guerre, intrighi, depistaggi e misteri in nome del petrolio. Matteotti e Mattei sono solo i casi più clamorosi riguardanti l’Italia. Dossier chiuso col non possumus italiano alla Sinclair Oil? Nemmeno per idea. Le manovre proseguirono a proposito del petrolio iracheno e di quello italiano in Libia. Ne tratta ampiamente sempre Mauro Canali, divenuto il maggior specialista italiano sull’argomento, nel suo Mussolini e il petrolio iracheno. L’Italia, gli interessi petroliferi e le grandi potenze (Einaudi, 2007). Il vizio è antico. Anche un secolo fa i sedicenti ultra nazionalisti “ancora un volta, e non certo per l’ultima, piuttosto che guardare agli interessi reali del paese si abbandonava[no] per scopi propagandistici ad una politica estera di mera esibizione”.
Le analogie con le cronache dei giorni nostri si sprecano. Un assassinio di regime che evoca quasi immediatamente quello dell’oppositore di Putin, di Navalny in Russia. Con tanto di difficoltà da parte della famiglia a riavere il corpo, di proibizione di funerali (si tennero molto dopo, sotto stretta sorveglianza a Fratta Polesine, nel paese dove la vittima era nata), di depistaggi, di ridimensionamenti forensici (si disse inizialmente che l’uccisione non era stata intenzionale, insomma che si sarebbe trattato di morte quasi “naturale”). E ancora: documenti che spariscono dalla valigetta della vittima, e che si ritiene avessero a che fare con uno scandalo finanziario molto imbarazzante per il regime. Tipo la corruzione a vantaggio di Putin e dei suoi cari che, denunciata da Navalny cifre alla mano, ne aveva fatto il pericolo numero 1 per il regime di Mosca. Senza contare l’esagerata esposizione di fratelli, cognati, clienti, prestanome degli uomini al potere. Cognato del ras del fascismo cremonese Farinacci era ad esempio Nicodemo del Vasto, uno dei giudici che avevano preso il posto dei primi giudici istruttori, i quali avevano indagato troppo onestamente per essere graditi al governo.
Ma le analogie con la nostra attualità quotidiana non si fermano qui. Forse più triste ancora è il modo in cui l’opposizione si era divisa, prima e dopo l’assassinio, sulla figura di Giacomo Matteotti. Il deputato del Polesine, divenuto segretario del Partito socialista unitario, era troppo attivo, troppo moderato, troppo riformista, troppo europeista per i gusti dei suoi compagni di opposizione al fascismo. Infastidiva la sinistra comunista, ma anche quella socialista e anticlericale che Matteotti avesse dato “strette di mano a molti preti (compreso Don Sturzo) e mezzi preti e grande movimento di meraviglia”, come scrive egli stesso alla moglie Velia. Infastidiva il puntiglio con cui faceva le pulci ai conti pubblici, e anche il rifiuto di posizioni populiste, di ogni tipo. Gli era capitato di sostenere che è “essenzialmente dannoso l’additare all’odio del popolo le tasse, le imposte”, mentre “noi [la sinistra] dobbiamo limitarci a dimostrare che le imposte sono mal distribuite, ma diffondere al tempo stesso la persuasione che sono assolutamente necessarie”. Avrebbe, col senno di poi, potuto essere proprio lui, Matteotti, il “federatore” della sinistra, e forse pure del centro. E invece lo punzecchiavano e lo infilzavano da tutte le parti, da destra come da sinistra.
Il comunista Antonio Gramsci aveva denunciato immediatamente, sull’Unità, la responsabilità del rapimento di Matteotti, in un articolo intitolato “Abbasso il governo degli assassini”. Ma il suo primo impulso era stato andare a riferire a Mosca, dove erano già convinti che il fascismo fosse agli sgoccioli. Al congresso dell’Internazionale il presidente Zinoviev aveva agitato la copia del giornale italiano sostenendo che, se poteva uscire con un titolo come quello, voleva dire che la situazione era cambiata: i fascisti si erano nascosti, avevano strappato le loro insegne, insomma erano scomparsi dalla scena. Pie illusioni. Il giornale del Psu, La Giustizia, se la prendeva, il giorno dopo l’assassinio, con “il classismo senza capo né coda [del Pcd’I] a cui Matteotti non ha mai creduto”. Mentre Gramsci su l’Unità gli replicava che “il nostro ‘classismo… di marca fascista’ come pretende La Giustizia, si basa sull’esperienza di un grande stato proletario diretto per la prima volta nella storia dalla classe operaia, com’è l’esempio della Russia soviettista”. Peggio: in agosto Gramsci pubblicava su Lo Stato operaio un articolo intitolato “Il destino di Matteotti” che attribuiva al dirigente socialista una dimensione di astratta e vana resistenza al fascismo, di eroico ma inutile “pellegrino del nulla”. A settembre Gramsci considera ancora irreversibile la crisi del regime e indica nella via tracciata dai comunisti, che nel frattempo si erano separati dagli altri oppositori, addirittura “la volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo [sic!] di Amendola, Sturzo, Turati”.
Su queste premesse era impossibile costruire un “campo largo”, e nemmeno un campo stretto. Non c’era partita – si direbbe oggi – col blocco delle destre, dominato dai fascisti. Peggio: non seppero approfittare della lacerazione tra i fascisti, tra Mussolini e quelli che volevano completare la rivoluzione. Con Matteotti aveva polemizzato anche Gaetano Salvemini, giunto, come racconterà lui stesso, “alla determinazione disperata […] di abbandonare la politica militante”. Salvo ravvedersi e iscriversi al Psu subito dopo il delitto. Con Matteotti aveva avuto diverbi anche il liberale Croce, che lo considerava “tra gli arcieri che mi prediligevano a bersaglio dei loro dardi parlamentari, specialmente del lunedì, giornata delle interrogazioni”. Luigi Einaudi gli rimproverava di dimenticare “le infamie che [i socialisti] hanno commesso quando facevano l’ostruzionismo per vendere il pane sottocosto”, la demagogia sui sovraprofitti di guerra, e il sostegno statale a grossi gruppi industriali come l’Ansaldo. Quando si decisero finalmente tutti ad unirsi contro la dittatura e in difesa della democrazia, era ormai troppo tardi. Quanto a Gramsci, avrebbe avuto modo di meditare sulle ragioni della disfatta nei suoi Quaderni del carcere.