L’ANALISI
di Giordano Stabile
Con l’Isis che rischia di aprire un terzo fronte sullo scacchiere mondiale, dopo quello in Ucraina e a Gaza, e ancora più insidioso perché non delimitato a una precisa area geografica, gli Stati Uniti provano a gettare acqua sull’incendio in Medio Oriente. La decisione di non porre il veto alla risoluzione che chiede il cessate il fuoco nella Striscia è il segnale più forte finora lanciato dalla Casa Bianca a Benjamin Netanyahu. I moniti, le sanzioni agli estremisti negli insediamenti, il pressing continuo del segretario Antony Blinken erano restati nell’ambito della postura morale. L’azione delle Nazioni Unite, accoppiata al procedimento in corso all’Aja, pone invece una seria pressione sulle forze armate israeliane. Continuare le operazioni come se nulla fosse, per non dire andare all’assalto a quell’enorme campo profughi che è diventata Rafah, vuol dire esporsi a ulteriori accuse di violazione del diritto internazionale. La durissima reazione del premier israeliano è il segno che Joe Biden lo ha toccato sul vivo.
L’accelerazione statunitense era nell’aria. Il massacro di Mosca l’ha resa ancora più urgente. È indubbio che Vladimir Putin si appresta a sfruttare l’effetto 11 settembre, ovvero 7 ottobre, anche se in maniera distorta. È pronto a “togliersi i guanti” negli attacchi sulle città ucraine, dopo aver accusato Kiev di essere in qualche modo responsabile dell’attentato al Crocus City Hall. E affila anche le armi della retorica per giustificare le stragi di civili che ne potrebbero conseguire. Se Israele ha potuto radere al suolo le città della Striscia per dare la caccia ai responsabili degli orrori nei kibbutz, allora lui ha il diritto di usare missili e bombe più potenti, come le nuove Fab 3000, da tre tonnellate, in grado di sbriciolare un grosso condominio compresi gli eventuali rifugi sotterranei. È necessario smontare subito il parallelo, smascherare le false accuse ai servizi ucraini, ma anche frenare, e in maniera decisa, l’offensiva israeliana su Gaza.
Va scongiurato a ogni costo l’assalto a Rafah, che Netanyahu ribadisce ogni giorno di voler lanciare e che potrebbe davvero subito dopo la fine del Ramadan, fra poco più di una settimana. Il risveglio dell’Isis suona la campanella anche per l’Europa. Finora il gruppo jihadista più sanguinario ha cavalcato poco la questione palestinese. Vede come i principali nemici l’Iran e la Russia, che hanno distrutto il Califfato in Siria e Iraq, e i rivali Taleban, che hanno preso il potere in Afghanistan e si sono alleati con Mosca e Pechino. La tregua nei confronti dell’Occidente potrebbe però finire presto. L’opinione pubblica araba e musulmana ha gli occhi puntati su Gaza, non su Kabul. La propaganda sciita accusa lo stesso Isis di essere una pedina manovrata dalla Cia e dal Mossad che «non attacca mai Israele» ma solo obiettivi iraniani e russi. Per rimanere credibili come “credenti che difendono l’islam” gli eredi del califfo Abu Bakr al-Baghdadi sentono la necessità di colpire anche i “crociati”. Disinnescare la carneficina a Gaza significa disinnescare anche la bomba jihadista.