A mezzogiorno dal cielo sopra Rafah già cadevano i volantini israeliani che spiegavano a più di un milione di palestinesi dove andare per non finire sotto le loro bombe. Un’ipotesi più che una certezza: nei precedenti di questi sette mesi, le bombe d’Israele hanno continuato a cadere anche dove veniva promesso che non sarebbero cadute. Comunque i volantini annunciavano l’imminenza dell’attacco israeliano.
Poche ore più tardi, ieri sera, gli abitanti e i profughi di Rafah invece distribuivano caramelle per strada: è una tradizione palestinese quando si vuole festeggiare per qualche cosa. Dal Cairo era arrivata la notizia che Hamas aveva accettato l’offerta di tregua sponsorizzata da Egitto, Qatar e soprattutto
Stati Uniti.
La disperazione spinge sempre a credere per definitiva qualsiasi buona notizia. Invece Israele ha respinto la tregua accettata da Hamas perché – secondo lo stato ebraico – quell’offerta presupponeva un cessate il fuoco permanente: cioè la fine del conflitto. Bibi Netanyahu voleva solo una tregua a tempo determinato
per lo scambio fra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Fine dell’illusione: si torna ai volantini che impongono di andare altrove e che preannunciano la folle operazione su Rafah.
Yahya Sinwar contro Bibi Netanyahu. Comunque il primo è riuscito a rilanciare la palla nel campo del secondo. Il no del governo israeliano dovrà essere spiegato alle famiglie degli ostaggi nelle mani di Hamas; alla parte crescente della società israeliana che dubita della capacità di “sradicare Hamas” dalla Striscia; degli Stati Uniti e degli arabi moderati che vogliono la fine del conflitto.
La proposta accettata da Hamas e respinta dal governo israeliano prevede un’evoluzione dinamica del cessate il fuoco: una prima fase per lo scambio ostaggi/prigionieri; una seconda per allargare lo scambio fino a rilasciare tutti gli israeliani rimasti a Gaza.
Se tutto andasse bene,
lo stop ai combattimenti potrebbe continuare
per una terza fase, senza definirne i limiti. Il rischio di permettere ad Hamas di sopravvivere alla guerra c’è. Ma dopo sette mesi prevalgono la volontà e l’interesse di fermare questa guerra e di togliere di mezzo gli estremisti palestinesi di Sinwar con mezzi più politici che militari.
È un’ipotesi che per Netanyahu equivale a una fine politica. Nelle prossime ore sarà interessante capire se una o entrambe le parti di un Israele bicefalo abbiano detto no al sì di Hamas:
se solo gli alleati nazional-religiosi del governo di estrema destra o anche
tutti i membri del gabinetto di guerra composto anche dalle opposizioni.