Pupo
francesco olivo
Il duello è chiaro e il terreno anche: la riforma dell’elezione diretta del premier. Elly Schlein e Giorgia Meloni devono trovare una data per il duello televisivo, ma il dibattito è già partito. La segretaria del Pd denuncia un’accelerazione su premierato e autonomia, convoca una manifestazione per il 2 giugno e chiama a raccolta i suoi per una dura battaglia parlamentare: «Usiamo i nostri corpi e le nostre voci per fare muro rispetto a questo tentativo». E il segnale arriva subito: l’opposizione presenta quasi tremila emendamenti al Senato. Qualche ora dopo Meloni, in un discorso di quasi un’ora trasmesso per intero su Rainews24, risponde: «La mia disponibilità al dialogo non è stata colta». E quindi, va dritta verso il referendum costituzionale: «Saranno gli italiani a dire se sono d’accordo. Perché la Costituzione non è mia, ma del popolo». Nel giorno in cui il premierato sbarca al Senato (è quasi escluso che si arriverà alla prima approvazione in tempo per le Europee), la premier riunisce alla Camera personalità di mondi diversi, spettacolo, sport, informazione e imprese per lanciare di fatto una lunga campagna referendaria. L’occasione in realtà è di spessore accademico: un convegno organizzato dalle fondazioni intitolate ad Alcide De Gasperi e Bettino Craxi, guidate da due ex ministri, Angelino Alfano e Margherita Boniver. L’evento si chiama «La Costituzione di tutti» e al tavolo dei relatori si alternano studiosi di orientamento diverso, che non hanno nessuna remora nel criticare il testo: il costituzionalista Francesco Clementi, il politologo Giovanni Orsina, la giurista Anna Maria Poggi e l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Meloni ha chiesto che il dibattito non fosse confinato agli addetti ai lavori e ha esteso gli inviti a un variegato gruppo di ospiti. Per renderla più pop il ministro dello Sport Andrea Abodi e il sottosgegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi si sono messi al telefono per arruolare volti noti. Alla fine tutti entusiasti delle riforme meloniane: «Ero entrata con un’idea e ne esco con un’altra. Serve stabilità», dice l’attrice Claudia Gerini. «Una platea rappresentativa della società italiana», dice Palazzo Chigi. Nella Sala della Regina di Montecitorio arrivano cantanti, Iva Zanicchi, Pupo e Amedeo Minghi, sportivi, Elisa Di Francisca e Filippo Magnini e molti imprenditori. Il produttore cinematografico Tarek Ben Ammar e Pietro Salini, amministratore delegato di WeBuild, sono in prima fila. Subito dietro, accanto a Pupo, c’è Giampaolo Angelucci, presidente della finanziaria Tosinvest, poi raggiunto dal padre Antonio, deputato della Lega, sebbene non così assiduo frequentatore di questo palazzo. In platea di leghisti (veri) non se ne vedono. Mentre tutti salgono le scale per raggiungere la sala il deputato del Carroccio Stefano Candiani prende la direzione contraria: «Non vengo, non sono abbastanza fascista. Scherzo eh! ».
Entrando a Montecitorio alcuni degli ospiti confessano un certo spaesamento: «Non so ancora perché mi abbiano invitata – dice Iva Zanicchi prima di prendere l’ascensore –, ma quando Giorgia chiama tutti corriamo». Minghi anche si guarda intorno, «mi sono stupito dell’invito, ma sono curioso». Pupo, invece, elegantissimo, è sinceramente felice, nonostante qualche apparente contraddizione ideologica: «Sono un anarchico conservatore, sono per il premier forte, anzi fortissimo». Tutti immaginano il modello a quale si riferisce il cantante toscano: «Putin? Non lo conosco, ma faccio concerti al Cremlino e spero che prima o poi venga». Un cronista scherza, «meglio Pupin, di Putin».
Entra Meloni, accompagnata dal presidente della Camera Lorenzo Fontana e le conversazioni cessano. Gli interventi dei professori sono brevi e non banali. La premier, seduta in prima fila, annuisce quando Violante ricorda la tradizione di instabilità dei governi e prende appunti quando Clementi la invita a dialogare con le opposizioni, perché il referendum «avrà l’effetto di polarizzare la società». Un’obiezione alla quale Meloni risponderà dal palco, citando le parole di Schlein (mai nominata): «Fermano la riforma con i loro corpi, dicono. È una minaccia? Difficile dialogare così. Questa riforma l’abbiamo fatta in punta di piedi. Io ero partita dal semipresidenzialismo alla francese, ma sarebbe stato divisivo». Nel suo lungo intervento, la premier parla sempre in prima persona dei motivi che l’hanno spinta fin qui: «Mi sono interrogata – spiega rispondendo a una questione posta da Violante – su come i miei avversari politici utilizzerebbero questa riforma se fossero al governo, ma non mi faccio questi problemi. Per me è un rischio fare questa riforma. Avrei potuto non farla, il governo è forte. Ma se non cogliessi questa occasione non sarei in pace con la mia coscienza». Poi, per allontanare lo spettro del referendum perso da Matteo Renzi nel 2016, aggiunge: «È un errore la personalizzazione. Questa riforma non riguarda la sottoscritta o il presidente Mattarella. Riguarda un altro mondo, un futuro ipotetico». Meloni è attenta a sorvolare sulle questioni più delicate, come la cosiddetta norma antiribaltone, sulla quale la Lega chiede correzioni. Ma la premier dice la sua sulla legge elettorale, «che ricostruisca il rapporto eletto-elettore e consolidi la democrazia dell’alternanza. Non sono mai stata contraria alle preferenze». Finisce il discorso. Pupo è entusiasta: «Mai più ribaltoni! ».