Modello Roma e Modello Milano sono due narrazioni encomiastiche. La prima, fiorita con la giunta Veltroni «nel pieno dell’ubriacatura immobiliare» (12 marzo 2019, p. 108), celebrava una città «proiettata nel firmamento internazionale, prestigiosa e competitiva»[1]. Un’euforia di parole che non ha retto a lungo: sovrastata dai problemi cronici della Capitale, divenne insostenibile con l’elezione, nel 2008, di Gianni Alemanno a sindaco.
La seconda narrazione, sorta con lo sciame sismico della speculazione edilizia che, dalla giunta Albertini in poi, ha sconvolto lo skyline della città ambrosiana, ha conosciuto un’impennata nel dopo Expo (2016) per uscire anch’essa malconcia dal conto presentato dalla realtà: la crescita vertiginosa delle disuguaglianze, la forte selezione sociale (con un’espulsione dalla città non solo dei più deboli ma di una parte del ceto medio), il regredire della qualità dei servizi, l’aggravarsi dell’inefficienza dei trasporti metropolitani, il peggioramento della qualità dell’aria e, ultimo, ma non per importanza, il farsi straniera della città a sé stessa, laddove il nuovo tanto strombazzato si riduce a esibizioni solipsistiche e alla creazione di deserti relazionali.
Modello Roma e Modello Milano sono il frutto del degradarsi della politica a comunicazione (con Berlusconi apripista) e del costituirsi di circhi mediatici che hanno fatto da reggicoda a pubbliche amministrazioni inadeguate (di vario colore politico); non senza la regia, più o meno occulta, dei poteri forti, veri beneficiari dei “modelli”. A conti fatti, siamo di fronte a falsificazioni della realtà destinate a passare alla storia come armi di distrazione di massa.
Non sfuggiranno peraltro agli storici le contronarrazioni che via via smascheravano l’inganno. Per la capitale d’Italia, spicca il lavoro di Enzo Scandurra che, soprattutto dalle pagine del quotidiano «il manifesto»[2], dal 2008 a oggi, con tenacia e incisività, ha sbugiardato la vulgata elogiativa alla luce dei fatti, peraltro di un’evidenza palmare. Questi scritti, ora raccolti nel volume Roma. O dell’insostenibile modernità (MachinaLibro, Bologna 2024), oltre a testimoniare di un impegno personale dell’autore, costituiscono un utile strumento per chi voglia farsi un’idea dei mutamenti urbanistici e sociali intervenuti nella Città Eterna negli ultimi decenni e sia interessato a un bilancio delle politiche perseguite dalle amministrazioni comunali, come anche a vagliare l’indicazione di vie d’uscita e la loro credibilità.
Ma si dirà: perché scandalizzarsi? In fondo la laus urbis è sempre esistita.
Le rappresentazioni che vanno sotto il nome di Modello Roma e Modello Milano – rispondo – sono tutt’altra cosa. Nel mondo antico greco-romano, come ha scritto Andrea Pellizzari, «la celebrazione dei valori della vita urbana, nei quali la civiltà antica si è sempre profondamente riconosciuta»[3] era parte imprescindibile dell’encomio. E così è stato nell’era cristiana, a cominciare – per limitarci al contesto italiano – da Bonvesin de la Riva (De magnalibus urbis Mediolani, 1288) per arrivare almeno fino a Carlo Cattaneo[4]. La differenza sta appunto nel fatto che le narrazioni celebrative su Roma e Milano di questi ultimi anni prescindono dai più elementari valori umani e civili: pietas, contrasto alla povertà, inclusione, tolleranza, accoglienza, risposta ai problemi abitativi, cura dell’urbanità e della qualità urbana dei luoghi, attenzione alla convivenza e alla bellezza civile. Anzi: i peana innalzati dai media sulle due città glorificano l’opposto: i contesti urbani più pregiati consegnati alla monocoltura del consumo di lusso e del turismo selvaggio, degradati a eventopoli[5], ridotti a praterie per cacciatori (nostrani e internazionali) di rendite immobiliari (una compagine variegata verso cui i governi locali si sono ritagliati il compito di “facilitatori”). E questo senza la minima capacità della pubblica amministrazione di indirizzare le scelte urbanistiche e ancor meno di prendere le misure atte a evitare processi devastanti nella compagine sociale. Quello che si è consumato dietro la maschera di “modelli” tanto celebrati può essere rubricato sotto voci quali: sfascio dei tessuti insediativi, disarticolazione della civitas, privazione del diritto alla città, rinnovamento disurbano, proliferazione della bruttezza come specchio della caduta dei valori civili.
Allo stesso tempo, come si è detto, il racconto su cosa stava e sta accadendo alle città è stato di fatto sequestrato proprio da chi ha conquistato il potere di deciderne i destini. L’opposizione di cittadini organizzati in comitati, movimenti e associazioni (numerosi a Roma non meno che a Milano), i riscontri quotidiani degli organismi assistenziali (la Caritas in testa), le voci (rare) di intellettuali fuori dal coro: tutto questo non è valso a scuotere le coscienze e a innescare uno scatto di consapevolezza condivisa. E, ancor meno a promuovere una risposta politica da parte del corpo sociale, tanto diffusi sono il senso di impotenza e la rassegnazione. Come se il (buon)governo delle città non fosse il cuore stesso della politica e della democrazia.
Ora che i guasti di questa stagione sconsiderata sono sempre più evidenti, le narrazioni edulcorate di chi decide la città sono teli lacerati dall’irrompere della realtà. E libri come questo di Scandurra possono essere di grande utilità per chi sia intenzionato a tessere i fili perché gli abitanti tornino a essere protagonisti delle scelte che investono presente e futuro delle città.
Pagina dopo pagina il lettore è coinvolto in un serrato e impietoso corpo a corpo con i problemi dell’Urbe. Ritorna come un mantra l’elencazione dei mali della città: l’inestirpabile emergenza rifiuti, la sgangherata organizzazione dei trasporti pubblici, l’inefficienza dei servizi sociali, l’acutizzarsi del problema della casa (accentuato dal dilagare incontrastato degli affitti brevi), la «chiusura delle botteghe artigiane e della proliferazione sempre crescente dei grandi supermercati, della povertà, della emarginazione e dell’allontanamento delle classi più disagiate e, non ultimo, il problema della minaccia ambientale e del degrado» (8 ottobre 2023, p. 156). E la lista si allunga con «le buche, gli autobus autoincendianti, gli scheletri architettonici disseminati in ogni luogo, il traffico impazzito, le orde turistiche che divorano il centro storico, le periferie abbandonate e il trasferimento degli immigrati verso mete sconosciute» (12 marzo 2019, p. 110). Per chiudere in gloria con le manovre convulse attorno ai grandi interventi: il nuovo Stadio della Roma (un’esca per aprire la strada a interventi immobiliaristi), l’attracco delle grandi navi crocieristiche a Fiumicino, fino ai tentativi di innescare una speculazione edilizia sull’area pubblica dell’ex Fiera. Mentre è in dirittura d’arrivo la Foresta di Tor Marancia a piazza dei Navigatori (un parcheggio multipiano di 150 posti su modello del milanese Bosco verticale). Tutto questo porta Scandurra a concludere: «Roma è una città ingovernabile. Una governabilità apparente è possibile solo venendo a patti con i poteri forti: immobiliaristi, faccendieri, lobby di vario tipo; ed è quello che ha sempre fatto il Pd, da Rutelli a Veltroni» (6 settembre 2016, p. 77).
«Questa apparente governabilità – prosegue l’autore – ha però un prezzo esoso: è costata un debito enorme, una espansione delle periferie ben oltre il raccordo anulare, un deficit accumulato dalle partecipate (Tac, Ama ecc.). In una parola: una inefficienza della macchina urbana a livello di trasporti, raccolta dei rifiuti, asili nido, assistenza sanitaria, eccetera» (ibidem).
Non resta un minuto, verrebbe da dire, perché, dopo un rigoroso lavoro d’indagine per ciascun ambito di sofferenza, un’amministrazione comunale all’altezza del compito prenda, senza esitazione, i provvedimenti del caso. Ma nella Capitale d’Italia un simile indirizzo equivarrebbe a una rivoluzione. Si prenda la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti: «non è un mistero tecnologico – scrive Scandurra -: in molte città europee e anche italiane il problema è stato risolto. Che vuol dire che a Roma non è soltanto l’incompetenza la colpevole di tanti guasti, ma che in questa città prevalgono poteri ben organizzati che vivono (e bene) a spese della incapacità dell’amministrazione di trovare soluzioni adeguate» (5 febbraio 2020, p. 132). Una valutazione che si può estendere a diverse altre piaghe della Città Eterna.
Sul perché ciò accada è materia del dramma in cui la città si è infilata negli ultimi decenni. Un dramma sulla cui risoluzione Scandurra è quanto mai pessimista: «Chi […], al governo della città, decidesse di rompere l’accordo con i poteri forti, o anche semplicemente stabilisse che quell’accordo dovrebbe volgere al beneficio pubblico e non a quello privato, si troverebbe presto in una situazione di totale isolamento politico ed economico dunque in una situazione di ingovernabilità. Prima ce ne rendiamo conto e meglio è» (6 settembre 2016, p. 77).
Per nostra fortuna, il libro non si ferma qui; né si riduce a una geremiade. Il contributo di Scandurra gronda di intelligenza progettuale al servizio di una grande passione civile e sorretta dalla consapevolezza che «la città è la più grande opera d’arte collettiva della specie umana» (16 maggio 2021, con V. De Lucia, p. 144). Ecco allora la pars costruens: proposte che nell’insieme potrebbero formare le basi di un organico programma di politica urbanistica per Roma. Questi i punti forza:
- Il progetto Fori, ovvero il recupero di una proposta di Antonio Cederna – poi ripresa da Leonardo Benevolo, Italo Insolera, Adriano La Regina e Vezio De Lucia – «con il verde che dall’Appia Antica s’innerva […] fino al Colosseo» (16 maggio 2021, p. 145). «Il progetto Fori – precisa Scandurra – ha la giusta presunzione di riconnettere l’archeologia con la vita quotidiana dei cittadini e di stabilire almeno un ponte tra centro e periferia attraverso la costruzione della piazza dei romani cui tanto teneva Petroselli. Sarebbe anche l’occasione (non per motivi ideologici ma semplicemente per ripristinare l’antica armonia) per eliminare fisicamente la via dell’Impero e con essa la profonda ferita inferta alla città da Mussolini che l’aveva creata artificialmente a immagine di una retorica potenza romana» (21 aprile 2014, p. 50). Ed è motivo di speranza il fatto che l’idea, sia pure con aggiustamenti, sia stata recentemente ripresa dalla giunta Gualtieri e affidata alla direzione di Walter Tocci (22 febbraio 2022, p. 146) con il progetto del Centro Archeologico Monumentale (CArMe): «una serie di opere da portare a compimento nel triennio 2025-2027 con un investimento da 282 milioni di euro tra fondi Pnrr, Giubileo, statali e comunali» (https://www.comune.roma.it/web/it/notizia.page?contentId=NWS1093828).
- Il Grande parco urbano della Campagna Romana. «Obiettivo primario è l’azzeramento del consumo di suolo per le infinite e inutili grandi e piccole opere consentite dal disastroso e vigente piano regolatore […]» (16 maggio 2021, p. 145): un modo, sostengono Scandurra e De Lucia, per superare la «contrapposizione fra città e campagna trasformando ciò che resta della sconfinata distesa agricola che circonda la città (la più vasta riserva archeologica del mondo) in un “Grande parco urbano della Campagna Romana”» (ivi, pp. 144). Ma anche per incentivare un’agricoltura di qualità al servizio del contesto metropolitano, sostenendo la costituzione di «cooperative, orti urbani, luoghi creativi di produzione alimentare» (7 aprile 2021, p. 141).
- Case popolari nel centro storico. In un «centro storico ridotto a un simulacro di rovine senz’anima, senza persone, senza incontri, uno spazio che ricorda i disegni di Piranesi», Scandurra e De Lucia propongono di utilizzare il «grande patrimonio pubblico per trasformarlo in case popolari. Non è un’utopia – essi sostengono –. Negli anni Settanta a Bologna Pier Luigi Cervellati realizzò il piano per l’edilizia economica e popolare, proprio nel centro di Bologna. Un piano che fece letteralmente il giro del mondo e che ciononostante non fu ripreso da quasi nessun’altra amministrazione: a Roma (sindaco Giulio Carlo Argan) ci pensò l’assessore al centro storico Vittoria Calzolari a Tor di Nona e a San Paolino alla Regola; fu solo un breve inizio, poi fu sostituita nell’incarico»[6] (16 maggio 2021, pp. 144).
E l’immensa periferia romana? Porre questa domanda all’autore di Exit Roma è mettergli sulle spalle un carico spropositato che grava non solo su tutti i romani, ma su tutte le donne e tutti gli uomini di buona volontà. Enzo Scandurra ha ben presente «il mondo vasto, inesplorato, desolato, abbandonato delle borgate romane, dei borghetti, dei baraccamenti, da Pietralata a Tiburtino III, all’Acquedotto Alessandrino e poi tanti altri luoghi di disperazione situati ai margini della città» (estate 2013, p. 19). Così come ha ben presente l’evoluzione in peggio a cui questo mondo è andato incontro negli ultimi anni. Portare qualità urbana nelle periferie e riannodare le periferie alla città è una sfida immane (a Roma, come altrove). Seppure non risolutive, sarà bene fare tesoro di queste annotazioni del Nostro: «Credo che il futuro per questa città non possa che nascere da una valorizzazione della democrazia locale ancorché gracile e sempre pronta a regredire in atteggiamenti di minorità. Costruire luogo per luogo spazi d’incontro e di partecipazione, progetti locali che possano sostituire la rigidità di un piano regolatore generale per tutta la città, estrarre, luogo per luogo, le tante vocazioni, produrre tra loro sinergie, far uscire dall’isolamento il popolo delle periferie, valorizzare e non piallare il grande patrimonio di differenze e resistere alla tentazione di una modernizzazione che vorrebbe trasformare l’agro in un deserto di cemento, costruire nuove piste di un aeroporto che è diventato grande quasi l’intera città, smetterla di riempire la città di centri commerciali che trasformano gli abitanti in monadi, cittadini autistici che attraversano la città attaccati a protesi telefoniche e incuranti dei luoghi che attraversano» (2013, p. 30).
Ma perché la politica – ovvero i cittadini – torni a porre al centro il problema della difesa attiva della qualità urbana dei luoghi e a pensare ogni trasformazione dell’habitat come occasione per fare città – e per dar vita a un paesaggio dove il termine umanizzato significhi specchio dell’umano – c’è da promuovere una profonda rivoluzione culturale. In questo la scuola può assumere un ruolo importante. Il capitolo Appia o Casilina? Bellezza e bruttezza di una [ex] Grande Roma («il manifesto», 9 ottobre 2020, qui alle pp. 137-139) andrebbe fatto leggere a tutti gli studenti delle scuole medie superiori di questo nostro Paese. Anzi: il Mibac potrebbe promuovere un concorso sul tema: Percorrete prima la Casilina e poi la via Appia antica fino al cuore di Roma e raccontate le vostre impressioni.
* Il presente saggio è uscito il 29 giugno 2024 – con il titolo Roma: il possibile riscatto – sul sito della Casa della Cultura di Milano, nella rubrica Città Bene Comune curata da Renzo Riboldazzi, che ringraziamo. La versione originale si può leggere a questo indirizzo: https://casadellacultura.it/1503/roma-il-possibile-riscatto
Note al testo
[1] Sandro Medici, Spaventata, Roma si fa piccola, «il manifesto», 3 maggio 2008 (cit. da Scandurra, p. 9).
[2] In tutto quaranta articoli apparsi su «il manifesto» dal 13 maggio 2008 all’8 ottobre2023 – di cui tre scritti a quattro mani con Paolo Berdini, Piero Bevilacqua e Vezio De Lucia e uno con Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Antonio Castronovi e Roberto Sordelli. Nel libro sono raccolti anche tre brevi saggi pubblicati sulle riviste: «La Critica sociologica» (a. XVII, n. 186, estate 2019), «italianieuropei» (nn. 3-4, 2016) e «Città e territorio», 27 marzo 2014.
[3] Andrea Pellizzari, Tra retorica, letteratura ed epigrafia: esempi di laudes urbium tardoantiche, in «Historikά. Studi di storia greca e romana», v. 1, n. 1, 2011, pp. 124, https://ojs.unito.it/index.php/historika/article/view/22.
[4] Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in «Il Crepuscolo», IX, nei fasc.: 42, 17 ottobre 1858, pp. 657-659; 44, 31 ottobre 1858, pp. 689-693; 50, 12 dicembre 1858, pp. 785-790; 52, 26 dicembre 1858, pp. 817-821, ora anche in Id., Storia universale e ideologia delle genti. Scritti 1852-1864, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino 1972, pp. 79-126. Ma la messa in evidenza dei valori e delle potenzialità civili incarnati nelle città sono rintracciabili, ancora nel Novecento, in Alberto Savinio (Ascolto il tuo cuore città, Bompiani, Milano 1944), e in alcuni discorsi di Giorgio La Pira e dell’arcivescovo Carlo Maria Martini.
[5] G. Consonni, Tutti i rischi di Eventopoli: la Milano da bere 2.0, in «La Repubblica – Milano», 13 aprile 2017. La reazione di amministratori pubblici e potentati a quest’articolo ha avuto come esito la fine della collaborazione di chi scrive alle pagine milanesi del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.
[6] Ma sarà bene ricordare che il primo a sostenere che si dovesse utilizzare la legge 18 aprile 1962, n. 167 (Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare) per costruire case popolari nei centri storici è stato Piero Bottoni, a pochi mesi dalla promulgazione della legge. Vedi P. Bottoni, Una concreta difesa dei centri storici: Discorso tenuto in Palazzo Ducale a Venezia al Convegno Nazionale di Studio dell’Associazione Nazionale Centri Storici (27-28 ottobre 1962), in «Ferrara», a. III, n. 4, aprile 1963, pp. 55-58, ora anche in Id., Una nuova antichissima bellezza, a cura di G. Tonon, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 390-399.