Immagino siano vestiti a lutto certi editorialisti nostrani che da gran tempo danno credito alla evoluzione di Giorgia Meloni quale statista apprezzata nel mondo e politica a tutti gli effetti affrancata dal suo passato di fiera militante di una destra non certo liberale.
Davano per certo che la premier non si sarebbe messa fuori da tutte le nomine dei vertici europei. Non ci sono precedenti, nella nostra storia, di governi che abbiano votato contro i vertici Ue. Vogliamo finalmente guardare in faccia la realtà?
Meloni ha ragione a rivendicare conclusivamente la sua coerenza, salvo riconoscere di essere stata combattuta e incerta sino all’ultimo secondo. Come si evince dalla reticenza e dall’imbarazzo al limite del ridicolo della sua delegazione all’Europarlamento in trafelata fuga dai giornalisti.
L’ABBRACCIO CON I PATRIOTI
Coerente con sé stessa, con la sua storia e con la sua cultura: quella di un nazionalismo refrattario se non ostile alla integrazione europea e quella che, al dunque, l’ha indotta ad associarsi ai partiti dell’estrema destra europea raccolti nella famiglia dei cosiddetti Patrioti di Viktor Orbán e di Marine Le Pen.
Del resto, una parte di essi già stavano con lei nel raggruppamento dei Conservatori, ma l’avevano di recente lasciato. Il gruppo da lei presieduto già si era sfarinato, i partiti residui si sono divisi nel voto su von der Leyen e comunque è stata semmai lei a rifluire sul no degli estremisti raccolti nei Patrioti.
Ciò che sorprende e un po’ commuove degli editorialisti compiacenti è di avere alimentato, alla vigilia del voto del parlamento Ue, un’attesa del tutto immotivata verso un esito che era già scritto. Stante le premesse: il suo totale isolamento nel Consiglio europeo, la sua spocchiosa protesta contro una maggioranza già costituitasi e vagliata dalla tradizione, la disarticolazione della famiglia politica da lei presieduta, la programmatica ambiguità del suo zigzagare tra il ruolo e premier e quello di leader di partito, fallendo in entrambi, la stretta tra due vicepremier attestati su opposti fronti.
FUORI DAI GIOCHI
Su questi presupposti, era chiaro sin dall’inizio che Meloni fosse condannata a non contare nulla; che lei non disponeva già più dei voti del suo Ecr (oggi di fatto disciolto) e che quelli del suo partito italiano, FdI, sarebbero stati ininfluenti.
Dunque fa un po’ sorridere l’importanza assegnata dai suddetti compiacenti opinionisti a una premier a tutti gli effetti manifestamente fuori dai giochi.
Essi, con lei generosi nei giudizi e prodighi di consigli non richiesti e puntualmente disattesi, testardamente non si rassegnano a una verità, puntualmente certificata nei passaggi che contano. Ovvero che, prima e più che per calcolo politico (niente nemici a destra), per istinto identitario, Meloni si conferma per ciò che intimamente è: nazionalista di estrema destra.
Una identità che, anche preterintenzionalmente, la risospinge verso chi le somiglia. Lo segnalava Norberto Bobbio con riguardo a partiti e persone: alla propria più intima natura non ci si può sottrarre, essa ci definisce e ci determina.
Sarà il caso che se ne facciano una ragione gli certi soloni del giornalismo dell’establishment, orfani di un premier liberale e conservatrice solo nei loro generosi (e fantasiosi) desideri. Che la smettessero di importunarla con la loro pressione al limite dello stalkeraggio, con la pretesa di usare violenza alla sua natura. E, da sinistra, la si piantasse di incalzarla con la petulante richiesta di dichiararsi antifascista, costringendola all’ipocrisia.