Per quanto l’ecosistema appaia variegato, gli esseri viventi – tutti: batteri, piante, animali – condividono alcune caratteristiche comuni decisamente peculiari. Ad esempio, tutti usano una molecola denominata adenosintrifosfato (meglio noto come ATP) per immagazzinare l’energia necessaria al metabolismo. Inoltre, usiamo le stesse venti molecole dette «aminoacidi» per assemblare le proteine, tutte esattamente orientate dalla stessa parte. Questi tratti comuni suggeriscono che la varietà degli ecosistemi si sia sviluppata a partire da un unico essere vivente, da cui proverrebbero queste stesse caratteristiche.

Tale forma di vita originaria viene chiamata «Luca» dai biologi. Non è un riferimento evangelico. «Luca» è la sigla di Last universal common ancestor, che in inglese significa «l’ultimo antenato comune universale». Gli scienziati pensano che si trattasse di un organismo piuttosto semplice, probabilmente simile a un odierno batterio. Da molti anni, però, provano a farne un identikit più preciso e a datare l’epoca della sua comparsa sulla Terra. L’ultimo promettente tentativo è del gruppo di paleobiologia dell’università di Bristol (Regno Unito) guidato da Edmund Moody, descritto nel numero appena pubblicato della rivista Nature Ecology & Evolution.

Per la datazione, il team di Bristol ha usato un metodo ormai consolidato chiamato «orologio molecolare» e basato sulla genetica. Sfrutta l’idea che l’evoluzione proceda attraverso singole mutazioni nel Dna che si trasmettono da genitore a figlio e a più rare trasmissioni genetiche orizzontali tra organismi non legati da un rapporto di discendenza. In base a questa ipotesi, specie geneticamente più simili – per esempio Homo sapiens e scimpanzé – vanno posti su rami vicini dell’albero della vita, con un antenato comune relativamente recente. Al contrario, differenze genetiche più grandi sono il sintomo di una differenziazione avvenuta in tempi più remoti. Studiando le distanze genetiche tra le specie è dunque possibile ricostruire l’origine dell’attuale biodiversità. Negli ultimi anni, le nostre conoscenze sul Dna dei batteri si sono moltiplicate: Moody e colleghi sono riusciti a collocare Luca in un periodo compreso tra i 4,1 e i 4,3 miliardi di anni fa, una data più precisa ma in buon accordo con stime precedenti.

Secondo i ricercatori di Bristol, che dal Dna ne hanno ricostruito parzialmente la biologia, Luca respirava anidride carbonica e idrogeno molecolare nei pressi di qualche cratere vulcanico sul fondo degli oceani. Effettivamente è in queste zone che sono state trovate alcune tra le tracce più antiche di vita. Con il suo metabolismo «nonno», Luca sintetizzava circa 2600 proteine ed era persino dotato di un rudimentale sistema immunitario che lo proteggeva dai virus detto «CRISPR»: lo stesso che gli scienziati, quatto miliardi di anni più tardi, hanno imparato a riprodurre in laboratorio e che oggi iniziamo a usare per curare alcune malattie genetiche.

Luca sarebbe dunque appena più giovane della Terra stessa, che secondo gli astronomi e i geologi si sarebbe formata circa 4,5 miliardi di anni fa. Prima del nonno potrebbero persino essersi sviluppate altre forme di vita, nel frattempo estinte senza lasciare tracce genetiche. Dunque, la vita ha abitato la Terra sin dai suoi primordi e non l’ha più abbandonata nonostante i meteoriti e le glaciazioni. Ci fa pensare che il nostro pianeta sia un luogo davvero speciale, fatto apposta per ospitare un fenomeno delicato e irripetibile come la vita. O, al contrario, che la vita sia un evento più ordinario di quanto pensiamo e che nel buio cosmico si nascondano tanti altri pianeti abitati, solo troppo lontani per raggiungerli.