È sempre più sottile la linea rossa che impedisce l’apertura del secondo fronte di guerra mediorientale – o terzo se si include quello yemenita. Il missile sul campetto di Majdal Shams, che ha fatto strage di ragazzi drusi, induce Israele a promettere una «risposta ampia», di cui si sono già viste le avvisaglie nella notte tra sabato e domenica, quando i caccia con la Stella di David hanno colpito postazioni e strutture di Hezbollah.

In particolare nell’area di Shebaa, zona da sempre teatro di scontri tra Partito di Dio e Idf – l’area delle “fattorie”, sotto controllo israeliano, è rivendicata da Hezbollah come parte integrante del territorio libanese –, da dove sarebbe partito il razzo che ha colpito il villaggio druso del nord del Golan.

Razzo, di fabbricazione iraniana, che aveva come probabile bersaglio la brigata dell’Idf sul Monte Hermon, finito, invece, sulla sfortunata località. Per Israele, il Golan, occupato dopo la guerra del 1967 e annesso unilateralmente nel 1981, è territorio nazionale: siano o meno d’accordo comunità internazionale, siriani, drusi.

Dunque, in base alla dottrina strategica vigente, fondata sul mantenimento della deterrenza, l’aggressore sarà inesorabilmente colpito. Il punto è come, oltre il quanto, perché solo la gradazione della rappresaglia può tenere in forma la guerra, altrimenti destinata a deflagrare con conseguenze imprevedibili.

Per evitare simili sviluppi, il Partito di Dio, così come il governo libanese, adombra l’ipotesi che possa essersi trattato di «un errore», dunque di balistica, non di volontà politica.

E in effetti, come si è visto dalla reazione dei locali contro i ministri israeliani presenti alle esequie, contestati e accusati di aver abbandonato a sé stessi quei territori annessi per ragioni strategiche, Hezbollah non ha interesse a colpire i drusi, semmai a soffiare sul fuoco delle loro tensioni con Israele. Obiettivo che una voluta strage di innocenti finirebbe per minare.

Nonostante l’annessione, infatti, la maggior parte dei drusi non sono, né si sentono israeliani: sono apolidi, solo il 10% ha la nazionalità dello Stato ebraico. Sebbene, per tradizione, i drusi rifuggano da identità nazionali forti, per regioni familiari, comunitarie, geografiche oltre che etniche, restano legati alla Siria. I drusi, denominazione che peraltro la comunità rifiuta a favore di quella di muwahhidun “unitari”, mentre il mondo continua imperterrito a chiamarli cosi, sono una setta di antica derivazione ismailita – dunque di origine sciita settimana – anche se questa filiazione si è scolorita nel tempo, soprattutto dal punto di vista dottrinale.

Tanto da essere considerati eretici dagli altri musulmani, perché credono alla trasmigrazione delle anime e all’inabitazione del Divino in talune personalità storiche. Al di là di queste specificità religiose – che . pero, in Medioriente contano, a dispetto degli analisti che continuano pervicacemente a ignorarle –, i drusi del Golan vivono con disagio la loro condizione di “annessi”.

Per quanto siano tendenzialmente lealisti, difficile che su Gaza o sul Libano la pensino come Netanyahu o come il leader della destra nazionalreligiosa messianica Smotrich, contestato al funerale insieme a altri ministri israeliani.

LA PROPAGANDA

Anche per questo la strage di Majdal Shams è difficile da usare sul piano della propaganda o della mobilitazione identitaria. Nonostante ciò, Israele colpirà Hezbollah.

I piani militari sono pronti da settimane, anche se la decisione di regolare i conti con i seguaci dello sceicco Nasrallah risale all’inizio del conflitto a Gaza, quando l’attacco di Hamas ha indotto l’esecutivo ad affermare la strategia del «nessun nemico ai confini». E Hezbollah, assai più di Hamas, è considerata una seria minaccia. Sia in ragione del suo armamento e dei suoi effettivi, sia per lo stretto legame con l’Iran, che Netanyahu a Washington ha definito il Nemico per eccellenza, responsabile prima di aver armato Hamas, poi, nel corso della guerra dei proxies, di aver delegato Hezbollah, gli Houthi e alcune formazioni filoiraniane in Siria e Iraq, a combattere Israele in sua vece.

La questione ora, nelle cancellerie internazionali, nelle capitali mediorientali, nell’America concentrata sulla corsa presidenziale, non è riuscire a evitare l’attacco ma come imporre a Israele di graduarlo.

Impedire, insomma, come già accaduto nello scambio aereo di primavera tra Tel Aviv e Teheran, che il conflitto sfugga di mano, divenendo quel casus belli che, a parole, tutti dicono di voler scongiurare. Difficilmente, però, se la risposta fosse devastante, e obbligasse a sua volta il Partito di Dio a reagire pesantemente, la guerra si potrebbe contenere. Con conseguenze imprevedibili in una situazione internazionale, e per alcuni paesi interna, come quella attuale, in cui un evidente deficit di egemonia a livello mondiale rende instabile lo scenario globale.

Attaccare il Libano non in maniera dimostrativa senza il sostegno americano, non sarebbe, comunque, semplice per Israele. Se non altro perché la prospettiva di vedere Trump di nuovo alla Casa Bianca si è fatta più incerta. Biden è divenuto un’anatra zoppa dopo la rinuncia a correre, ma i minori vincoli che vengono dal non partecipare alla competizione presidenziale, gli consentono di sostenere le proprie posizioni senza temere conseguenze elettorali.

Quanto a Kamala Harris, per avere qualche chance di successo, deve, prima ancora che vincere negli stati decisivi, tenere compatto l’elettorato dem, anche quello pro-pal. Anche se Netanyahu potrebbe scegliere la consueta politica del fatto compiuto: agire senza troppi vincoli, generando situazioni difficilmente reversibili sul terreno, per poi vedere che succede.

I COLLOQUI DI ROMA

Come in questo quadro possa progredire la trattativa tra Israele e Hamas, nel vertice di Roma tra l’emiro del Qatar e i capi dell’intelligence di Stati Uniti, Israele, Egitto, resta un mistero. E non solo perché a Gaza continuano in queste ore le stragi di civili palestinesi, comprese donne e bambini colpiti dagli attacchi aerei israeliani, ma anche perché Netanyahu, che pure si dice d’accordo sui principi fissati dagli Usa, continua a chiedere modifiche nei «dettagli».

La richiesta, già respinta da Hamas, è quella di «filtrare» i palestinesi che nella Striscia intendono tornare a Nord, misura giustificata con la necessità di evitare che con i profughi interni si muovano anche i residui miliziani di Hamas.

L’organizzazione islamista palestinese non intende discuterla, dal momento che non era contemplata nell’intesa preliminare. Ma se si profilasse la «la svolta drammatica» al confine libanese annunciata da Netanyahu, non ci sarebbe più nulla da negoziare. Toccherà allora a Biden e Harris decidere che fare, nel caso di Kamala anche per evitare di essere travolta elettoralmente, con il riottoso Bibi.