La forma-museo è sotto assedio? Sì e da più lati, i poliorceti sono diversi, e mossi da diversi interessi; per i non addetti: non è l’ennesima lamentela sull’occupazione della destra dei posti di un qualche rilievo pubblico ma di una crisi interna venuta fuori già nel 2017, quando all’incontro dell’Icom (International council of museums) a Kyoto non si pervenne a nessun accordo sulla definizione di museo, accordo che si è trovato nel 2022 a Praga, da cui è scomparsa però la parola ‘culturale’, che perimetra per noi italiani il patrimonio artistico, pur senza osare nominarlo.

Le ragioni di questa trasformazione sono ovvie: già l’esigenza di aprirsi ad aspettative e pubblici diversi erano emerse in America Latina, per ragioni sociali, e poi negli Stati Uniti, per motivi culturali (gender studies), accolte peraltro da subito in Europa le cui vibrisse postcoloniali avevano cominciato a reagire violentemente in tutti i musei etnologici e antropologici. La ‘decolonizzazione’ dei musei è non solo un atto di onestà verso i vinti ma anche una necessaria presa di coscienza da parte dei discendenti di quei colonizzatori il cui razzismo abbiamo ereditato e introiettato.

Un’altra delle crepe che si sono aperte da anni in queste città murate che sono (stati) i musei è il ruolo che in essa devono assumere le tecnologie digitali, che creano un orizzonte di aspettative nuovo e diverso nell’auspicabilmente nuovo pubblico delle generazioni XYZ ecc., per le quali il museo – una volta che si sia riusciti a introdurvele – deve funzionare esattamente come un computer: BYOD! Bring Your Own Device! esortano, è lì che troveremo tutte le risposte. La pandemia ha affinato la capacità di molte istituzioni di cogliere, a volte anticipare, queste esigenze, ma la maggior parte resta per ora a bordo campo a guardar giocare gli altri, i musei più grandi, ricchi, potenti.

È uscito per Carocci un volume collettaneo curato da Fulvio Irace che si è voluto intitolare ai Musei possibili (Storia, sfide, sperimentazioni, pp. 232, euro 24,00), dando a questo termine un contenuto se non prescrittivo perlomeno benaugurante. Irace firma un’introduzione in cui mette a fuoco queste problematiche vecchie e nuove: Dal deposito al cantiere si intitola il suo breve saggio, di ammirevole lucidità. Gli altri capitoli, quasi tutti affidati a studiosi militanti, mettono a fuoco aspetti specifici: Orietta Lazzarini si occupa della «stagione d’oro» degli allestimenti museali, quella dei maestri, ma limitata ahimè al solo Norditalia, asse Venezia-Milano-Genova (a parte l’inaggirabile intervento di Scarpa a Palermo), peccato capitale in un testo che si vuole innovativo; del resto lo stesso Irace resta imbrigliato nello stereotipo territoriale. Altri due saggi riportano alle issues di cui sopra, quello di Anna Chiara Cimoli, Spazio alle differenze.

Musei e rivendicazioni identitarie, con il linguaggio fantasioso e inedito di questa nuova critica per la quale l’unico museo che va in questa direzione oggi in Italia – proprio per gli sforzi di ‘decolonizzazione’ interna – è il Museo di Civiltà a Roma, e quello di Anna Casalino, Comunicare il museo: narrazioni, linguaggio, case studies, che riporta le difficoltà nell’individuazione di nuove chiavi di accesso al patrimonio museale. Un’interessante appendice sono le Testimonianze di tre protagonisti di questi anni: James Bradburne, direttore di Brera per sette anni, Cristiana Collu, alla guida (per due mandati) della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, e Elisabetta Farioli, dei Musei di Reggio Emilia. Gli altri saggi del volume appaiono meno a fuoco rispetto al titolo, ma a tutti sfugge un aspetto che caratterizza la totalità di questi ‘dispositivi’: i musei italiani soffrono non di un eccesso di orgoglio o protervia nella difesa del proprio ruolo ma di carenza di fondi, personale e competenze digitali.

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