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29 Settembre 2024Museologia, cinque casi: Carrara, Sabauda, Doria-Pamphilj, Corsini, Uffizi Dopo la stagione anni sessanta-settanta, in cui alcuni musei, in linea col progresso degli studî (Haskell, Barocchi), presero a esporre seguendo la storia delle collezioni, si è tornati al sistema per epoche: più ragionevole?
Quello tra i moderni musei e le collezioni storiche – reali, nobiliari, borghesi – è un rapporto affascinante e assai sfaccettato: semplificando al massimo, si potrebbe dire che in genere i primi sono figli delle seconde; e i genitori vanno rispettati. Ma i percorsi della storia possono essere così tortuosi da lasciare a noi oggi, in alcuni casi, l’onere di scelte difficili.
Alla sua morte nel 1998 Federico Zeri destinò all’Accademia Carrara di Bergamo le sculture di età moderna della propria collezione privata, scorporate dagli altri nuclei della raccolta (quelle antiche di Palmira, ad esempio, andarono ai Musei Vaticani): all’istituzione orobica egli si sentiva legato da affinità elettiva, poiché alla Carrara aveva lasciato i suoi dipinti un altro grande conoscitore, Giovanni Morelli. In un articolo del 1989 proprio Zeri aveva scritto: «Nelle passate sistemazioni della Galleria, i dipinti delle tre raccolte (Giacomo Carrara, Guglielmo Lochis, e appunto Morelli) sono stati mescolati, secondo un criterio espositivo basato sulle epoche e sulle scuole. Sento dire che l’attuale direzione ha in progetto la ricostruzione delle tre raccolte fondamentali: progetto di grande interesse per la storia del collezionismo e del gusto, una storia di cui soltanto oggi si comincia a comprendere l’importanza… Tuttavia, anche se separate, le varie raccolte saranno prive di un dato essenziale, e cioè la loro sistemazione negli ambienti originari». Il tempo passa, e la Carrara, dopo aver vissuto quel cambiamento epocale, ne ha attraversato un altro ancora, e quando dieci anni fa riaprì dopo un lungo intervento che aveva portato a un ripensamento completo delle sale, le collezioni si presentarono al pubblico di nuovo riordinate secondo il classico sistema delle epoche e delle scuole. Al nucleo principale delle sculture già appartenute a Zeri è ancora dedicata una sala a sé (come egli certamente voleva e auspicava), ma se lo studioso avesse lasciato dipinti di epoche diverse, questi non sarebbero andati a mescolarsi con gli altri dei lasciti Carrara, Lochis e Morelli? E del resto, ci sarebbe stato qualcosa di sbagliato in un’eventuale simile scelta?
Nel 1993 Marco Chiarini recensiva con entusiasmo l’ultima tranche dei lavori di riallestimento della Galleria Sabauda a Torino, portati avanti da un’équipe diretta da Sandra Pinto: i dipinti erano stati riordinati seguendo quel medesimo criterio evocato da Zeri, cioè in base alla loro storia collezionistica, e così le opere entrate in raccolta al tempo di Carlo Emanuele I erano distinte da quelle acquistate o commissionate da Carlo Emanuele III, e così via. Il corposo nucleo di dipinti fiamminghi e olandesi messo assieme dal principe Eugenio era quindi tenuto tutto assieme, accanto però alle poche importanti tele dei maestri italiani di cui lo stesso principe era entrato in possesso (questa sezione era stata curata da Michela di Macco): si trattava di un risultato importante, frutto di anni e anni di ricerca, e le didascalie lo restituivano per intero. Ma era anche il punto di non ritorno di quell’attenzione alla storia del collezionismo che, avviatasi con i memorabili studi di Francis Haskell e Paola Barocchi degli anni cinquanta e sessanta (ben prima, bisogna rilevarlo, di quanto quel passo di Zeri potesse suggerire), andrebbe forse coltivata – paradossalmente – più in sedi accademiche che non museali.
Chi visitava la Sabauda negli anni novanta ne usciva quasi stordito, soverchiato da nomi e date, persino in relazione alle cornici… e ai loro restauri… e a chi li aveva diretti! A uscire di scena, spesso, era proprio la storia dell’arte, lo stile e il linguaggio di quei dipinti, per i quali non rimaneva più spazio in didascalie e pannelli. Oggi, giustamente, c’è una nuova attenzione allo studio dei pubblici, a chi cioè i musei si rivolgono: il pubblico ideale immaginato da quel tipo di allestimento, colto e attrezzatissimo, oggi, quasi non esiste più, e forse non è mai esistito. E così, proprio come la Carrara, anche la Sabauda trasmigrata dal Palazzo dell’Accademia delle Scienze alla Manica Nuova del Palazzo Reale, in un percorso che comprende anche la visita a quest’ultimo, all’Armeria Reale, alla Cappella della Sindone e ad altro ancora, un polo museale cioè di eccezionale valore, che ci si augura attiri un numero sempre maggiore di visitatori, ha – giustamente, secondo di scrive – abbandonato quel criterio in favore, di nuovo, di quello tradizionale per scuole e cronologie.
D’altronde tanto alla Carrara – come avvertiva Zeri – quanto alla Sabauda, era impossibile ricollocare quei dipinti negli spazi che li avevano originariamente ospitati, poiché quegli spazi erano altrove (la collezione del principe Eugenio di Savoia, per fare solo un esempio, era stata il vanto del Palazzo del Belvedere a Vienna). Discorso diverso, ovviamente, per le raccolte giunte a noi insieme, e dentro, ai luoghi che le avevano viste nascere e crescere: scandaloso e sciocco sarebbe riordinare secondo criteri moderni, a Roma, le gallerie Corsini e Doria Pamphilj. Eppure le cose non sono mai così semplici. Nella prima, ad esempio, il dipinto forse più noto è il San Giovanni Battista di Caravaggio, che compare in collezione solo nel 1784, dopo la morte del cardinale Neri Maria (1770), che a quella raccolta aveva dato la sua impronta, e soprattutto dopo la stesura dell’inventario del 1750, sul quale si basa il display dei dipinti che ancora oggi si apprezza. Quindi magari ha un senso trasferire quella tela – come è stato appena fatto – nell’altra sede delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, ovvero a Palazzo Barberini, dove si trova forse la migliore antologia di pittura caravaggesca al mondo, forte di almeno due autografi certi del maestro? Ma allora, per riportare il più fedelmente possibile la raccolta Corsini alla sua facies settecentesca, anche i dipinti dei ‘primitivi’ entrati in collezione nell’Ottocento, come il Giudizio Universale di Beato Angelico, dovrebbero essere portati via dal palazzo in via della Lungara per affiancarsi a quelli collocati al piano terra di Palazzo Barberini?
Le vicende del portentoso Ritratto di Innocenzo X di Velázquez alla Doria Pamphilj possono sollecitare riflessioni simili: alla fine del Settecento quel capolavoro risultava di «un effetto così terribile, così forte e così armonioso insieme, che gran disgrazia è per tutti i quadri, che vi si trovano all’intorno». All’epoca la tela era nella galleria di uno dei quattro bracci del cortile, accanto a quelli che fino ad allora erano stati giudicati tra i capolavori della raccolta, compresa una Madonna reniana che per il nuovo gusto cominciava ad apparire esangue. E così, nella seconda metà dell’Ottocento, il Velázquez venne isolato in un gabinetto tutto suo: un episodio importante nella storia della museologia. Folle, ovviamente, sarebbe pensare di riportarlo nella collocazione settecentesca, ma allora forse anche alla Galleria Corsini si dovrebbero mantenere e proteggere in toto anche gli aggiornamenti che questa visse a cavallo tra XVIII e XIX secolo.
Non si tratta solo di ragionamenti oziosi, perché procedendo su questo sentiero si possono incontrare casi di fronte ai quali davvero gli storici dell’arte, e non solo, possono dividersi. I due celebrati ritratti di Agnolo e Maddalena Doni dipinti da Raffaello intorno al 1505 furono acquistati da Leopoldo II di Lorena ‘solo’ nel 1826, andando subito a prendere posto nella quadreria di Palazzo Pitti; dove furono visti, apprezzati ed esaminati da generazioni e generazioni di viaggiatori e studiosi.
Non molti anni fa, con una scelta coraggiosa, sono stati portati via da quelle splendide sale, simili per allestimento alle gallerie romane sopra citate, per essere collocati accanto al Tondo Doni di Michelangelo in uno degli ambienti iper-moderni realizzati ex novo agli Uffizi. Tondo Doni che, da parte sua, era stato per secoli (almeno dal 1677) il capolavoro più celebrato del sancta sanctorum degli Uffizi, l’impareggiabile Tribuna cinquecentesca. Ma se il dipinto del Buonarroti non può più stare in quella che era la sua collocazione storicizzata – una sala troppo piccola e troppo fragile per accogliere oggi le torme di visitatori degli Uffizi: ora non ci si entra più, la si ammira dalla soglia – non è in fondo naturale riunirlo alle effigi dei suoi committenti, in un magico accostamento tra Raffaello e Michelangelo, circa 1505, che nessun altro museo al mondo può ambire a realizzare?
Se ne è discusso, e se ne può ancora discutere.