“L’Arte Povera c’est moi”
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6 Ottobre 2024La 33ma edizione della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze (BIAF) La visita di una storica dell’arte, seicentista: sorprese e nuove opportunità di studio: Daniele Crespi, Genovesino, Fede Galizia, Cavarozzi, Giusto Fiammingo, Monsù Bernardo, Lanfranco, Reni, Salvator Rosa, Volterrano, Bernini
FIRENZE
Confesso di aver bollato lo slogan della Biennale Internazionale dell’Antiquariato 2024: «Un museo in vendita», come una trouvaille comunicativa. Mi sbagliavo: l’edizione di quest’anno è andata ben oltre l’esposizione, rivelandosi una fonte viva e palpitante di sollecitazioni per la ricerca storico-artistica. Giovanni Testori ebbe a dire: «Molto spesso il mercante arriva prima del critico (…). Il mercante è uno che, se non vuole andare in rovina, deve intendersi d’arte» (Luca Doninelli, Conversazioni con Testori, a cura di Davide Dall’Ombra, Silvana Editoriale, 2012, p. 151). Sul mercato ho poco da dire, ma certo quest’ edizione della Biennale, oggi in chiusura, non ha tradito le aspettative del critico.
Sono tante le storie di artisti da ripensare, ampliare, assestare, forse riscrivere, transitando nell’avvincente percorso dei due piani di stands elegantemente allestiti dentro il contenitore straordinario di Palazzo Corsini. Anche solo qualche minuto di fronte alla bellissima grotta in stucco tardo-seicentesca o un caffè sulla terrazza affacciata sull’Arno varrebbe la visita, ma le opere esposte catturano l’attenzione e non lasciano illesi.
Chi non aveva malinconicamente dato per spacciata la «pittura della realtà» (secondo la celeberrima definizione di Roberto Longhi), e forse anche tutta l’arte lombarda? Non sono poche, invece, le perle che brillano nella fiera, a partire dai toccanti Portaroli di Giacomo Ceruti (Salamon Fine Art), un dipinto reso noto da Mina Gregori, che giustamente lo includeva nel leggendario ciclo di Padernello: lo rivediamo con occhi nuovi, anche per merito della riscoperta del pittore alla recente mostra Miseria & nobilità (a cura di Roberta D’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti) o, forse, di una ritrovata cultura dell’inclusione. Per chi all’elegia del Pitocchetto preferisce la corda più grottesca del realismo lombardo ci sono tre dipinti di Antonio Cifrondi (tra cui la preziosa versione dell’Inverno) esposti da Longari, che non tradiscono le aspettative.
Momenti di gloria anche per i pittori «pestanti»: il Lucifero attribuito a Daniele Crespi e presentato da Cortona Fine Art lascia senza fiato per potenza espressiva e modernità. Lo conoscevamo dal catalogo di Daniele, di Nancy Ward Nielson, ma la sua visione risulta cruciale per esplorare il tema dell’«abbozzo autonomo», peculiarità degli artisti milanesi, Giulio Cesare Procaccini in testa, che fin dai primi due decenni del Seicento avevano intuito la potenzialità artistica non solo del quadro finito, ma anche della sua fase aurorale.
Non meno seducente è la serie di quattro piccole Storie di Sansone giustamente attribuite a Luigi Miradori detto Genovesino (Brun Fine Art), un pittore attivo tra Piacenza e Cremona alla metà del secolo, piuttosto raro sia sotto il profilo del catalogo che nei passaggi sul mercato: qui dimostra un garbo squisito, con tratti preziosi e quasi fumettistici nella rappresentazione delle imprese di Sansone. E in tema di rarità settentrionali, anche la tavola, ben più antica, di Romanino Cristo in Pietà sorretto da angeli (Matteo Lampertico) è un pezzo che starebbe bene in un museo tra Milano e Venezia.
Un posto d’onore tra le novità lombarde è occupato dalla bellissima Natura morta di Fede Galizia (Galleria Carlo Orsi), tra i capisaldi della produzione della grande pittrice lombarda. A Fede era stata attribuita, agli inizi della sua travagliata storia critica, anche la tela del Wadsworth Atheneum di Hartford, che ha dato il nome a un gruppo di bellissime opere raggruppate sotto il nome del Maestro della Natura morta di Hartford, una delle quali, monumentale, si può trovare da Cesare Lampronti. Federico Zeri pensava che l’anonimo Maestro potesse essere lo stesso Caravaggio; facendo pochi passi nella luminosa galleria della Biennale, una verifica con uno dei più originali interpreti del genere è presto fatta: nello stand di Canesso troviamo una delle più alte versioni autografe del Lamento di Aminta di Bartolomeo Cavarozzi. Bandito ogni arcaismo, il grandissimo pittore viterbese squaderna su un consunto tavolo di legno, di un naturalismo che lascia senza fiato, un tripudio di uva che, dipinto quasi certamente entro il 1615, basterebbe per misurare il grado di realtà che Caravaggio aveva iniettato nella pittura europea a pochissimi anni dalla sua scomparsa.
E in termini di naturalismo caravaggesco, anche la Rob Smeets Gallery propone una delle tele chiave per comprendere l’influsso del maestro lombardo sui pittori d’Oltralpe: un’opera di grande formato, raffigurante l’inconsueto episodio evangelico della Fuga del giovane nudo, consumatosi durante la cattura di Cristo. Il dipinto, straordinario per invenzione, è attribuito al misterioso Giusto Fiammingo, un pittore del Nord Europa sul quale rombano da tempo i motori degli studi e si attendono grandi novità. Proprio a partire da quest’opera è stato individuato infatti un gruppo di tele di alta qualità e di ispirazione caravaggesca, certamente eseguite a Roma con il patrocinio di mecenati di primissimo livello come il marchese Vincenzo Giustiniani, che possedeva il capolavoro esposto alla Biaf, registrato nel suo inventario del 1638.
Ma l’onda del caravaggismo è lunga, lunghissima: credo che una delle opere che andranno da qui in avanti citate in tal senso è la sensazionale Incoronazione di spine giustamente attribuita a Eberhard Keilhau (Lullo – Pampoulides Gallery), detto Monsù Bernardo, che copia e reinterpreta il capolavoro di Orazio Gentileschi di Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum, probabilmente visto a Roma dove Orazio lo eseguì intorno al 1615. Si tratta di una delle rare opere sacre di Monsù Bernardo, ed è assai significativo che l’artista abbia scelto a modello un pittore la cui sensibilità sembra diametralmente opposta alla sua, segno di un’eccellenza attribuita alla pittura gentileschiana ben oltre la morte del maestro.
Anche i riferimenti dei dipinti presentati a fonti, documenti e inventari prestigiosi sono numerosi. La bellissima Venere dormiente con cupido e un amorino (Galleria Fondantico), tra i quadri più interessanti del soggiorno romano di Giovanni Lanfranco, a metà strada tra Venezia, l’Emilia e Roma, apparteneva a Giuseppe Pignatelli (l’inventario è del 1647), fratello ed erede del cardinale Stefano, che per tutta la vita abitò nelle stanze del palazzo di Scipione Borghese e a cui certamente si deve la committenza di quest’opera. La tela, partendo dalle esperienze dell’Italia Settentrionale, conclude il percorso di Lanfranco nel solco della pittura romana di osservanza caravaggesca, in parallelo con Giovanni Baglione e fino ad Artemisia Gentileschi, che ne ha echeggiato il tema e il formato nella Venere ora in Virginia. Lo stesso blu cobalto del paesaggio di Lanfranco anima il bellissimo Paesaggio con amorini in gioco affaccendati in varie attività scherzose e ludiche di Guido Reni (in vendita da Altomani), una tela che è stata giustamente protagonista di una recente mostra alla Galleria Borghese dedicata al primo tempo romano di Guido e alle sue doti di paesaggista.
Eccezionale dal punto di vista del recupero critico è anche il Baccanale di Salvator Rosa della Galleria Porcini. La grande tela, firmata, incantevole in particolare per i chiaroscuri con cui è reso il bosco, si trovava nella collezione di Francesco Titi nel 1656 ed è perfettamente descritta da Giovan Battista Passeri, che ricorda come Rosa l’avesse spedita da Firenze a Roma, tessendone un elogio sperticato: «Il componimento di quel quadro era ammirabile, il paese ben proporzionato alle figure, con maneggio di colore maestrevole, sfrondeggiati gli alberi con grande artificio, con accordo mirabile di colori, unito nell’armonia».
Di tutt’altro genere, ma non meno sensazionale, è l’altro capolavoro del pittore presente alla Biaf, la Strega (Nicholas Hall), che accoglie il visitatore in cima al grande scalone del palazzo, anch’essa siglata dal geniale artista e realizzata intorno alla fine del quinto decennio del Seicento: documenta meglio di qualsiasi analisi l’altra faccia del femminile nella cultura barocca, ponendo a mio avviso anche qualche interrogativo sul presente. A documentare l’apprezzamento della committenza per questi soggetti c’è la bellissima Vecchia di Matthias Stom (Robilant + Voena), capolavoro probabilmente eseguito in Sicilia negli anni 1640-’50, di cui si conoscono più versioni, e questa è una delle più alte.
Ma se nella Firenze di metà Seicento Salvator Rosa rappresenta il lato oscuro della visione della donna, è il Volterrano a incaricarsi di cambiare di segno il nostro sguardo, introducendoci in una serata di dolce luna piena. Pochi dipinti come l’Onfale presentata da Alessandra di Castro illustrano in modo così efficace la verve ammiccante e suadente della regina che rese schiavo il grande Ercole, perfettamente consapevole del suo potere di seduzione e pienamente padrona dell’arte di esercitarlo. Costruita con poche straordinarie pennellate e una tavolozza ribassata di una modernità sconvolgente, la tela venne eseguita praticamente lo stesso anno, e nella stessa città, della Strega.
Chiudono l’età dell’oro del Seicento, in senso decisamente letterale, le Quattro teste grottesche urlanti di Gian Lorenzo Bernini, presentate da Flavio Gianassi. In bronzo dorato su marmo nero di Marquina (sul quale le sculture furono montate fin dalla loro realizzazione), sono quattro piccoli capolavori inclusi nell’inventario di morte del genio scultore. Facevano parte degli elementi laterali della carrozza personale di Bernini e certo non sfigurerebbero in un grande museo, esempio della rappresentazione di se stesso con la quale il regista del barocco si accompagnava nel quotidiano. La storia dell’arte ringrazia.