Mentre sta per finire l’anno che, in particolare dopo l’estate, ci ha regalato titoli notevolissimi, ecco che arriva in sala il Leone d’oro della mostra di Venezia, La stanza accanto di Pedro Almodóvar, un altro capolavoro. Primo film in lingua inglese del cineasta spagnolo, con due interpreti in simbiosi che sembrano essere state sempre grandi amiche, la britannica Tilda Swinton e la statunitense con cittadinanza britannica Julianne Moore, è un’opera potente, piena di poesia e umanità, sulla morte che si confonde con la vita – perché la morte e la vita raggiungono qui una forma di unitaria bellezza – e sull’amicizia che si confonde con l’amore. Da questa dimensione intima si arriva a quella collettiva e universale, all’umanità tutta, in relazione alla sua possibile fine per via della crisi climatica. È un film anche molto politico, delicatamente, senza enfasi, ma netto.
In altre parole, La stanza accanto è l’anticamera della morte dell’umanità. Eppure, allo stesso tempo, è piena dei potenziali germogli di vita, di una nuova vita. A cominciare dal fatto che è la storia di una rinascita, o seconda nascita, di una vecchia amicizia. Quella tra Martha (Tilda Swinton), reporter di guerra, e Ingrid (Julianne Moore), scrittrice di successo che ha appena pubblicato un libro di autofiction, Di morti improvvise, in cui il tema centrale è la paura della morte, il suo non accettarla, pur provando a capirla. Ingrid è quindi il rovescio di Martha, che ha concretamente visto tanta morte durante i suoi reportage, anzi potremmo dire che le due donne sono lo specchio l’una dell’altra.
Ingrid viene a sapere casualmente, da un’amica comune, che Martha è molto malata, con un tumore in fase terminale. Ma si sta curando e reagisce in maniera positiva, come si rende conto dopo averle fatto visita. Grandi conversazioni prendono subito il via e presto Martha ricorda a Ingrid del giovane marito, reduce dal Vietnam, traumatizzato e anzi dalla vita spezzata per sempre, dal quale è nata una figlia, Michelle, che le assomiglia come una goccia d’acqua, ma il cui rapporto è dominato dalla distanza e dal risentimento, perché troppo trascurata a causa dei suoi viaggi nel mondo per via del lavoro.
Ma tornano anche i vecchi ricordi della giovinezza trascorsa insieme, divertenti e dolci, di quando entrambe sulla rivista Paper documentavano tutto quello che succedeva nella New York più trasgressiva e di tendenza degli anni ottanta. Dolci ricordi che velocemente si mutano in momenti struggenti: di tutta quella vita, anzi di quella vitalità, di quell’effervescenza, di quell’energia, cosa resta? Presto, in nome di quell’intensa amicizia, di quei giorni esplosivi che all’epoca sembravano eterni, Martha chiede a Ingrid un dono enorme: accompagnarla verso la fine, rendendole più facile la sua scelta consapevole attraverso una pillola comprata nei meandri più oscuri di internet. Ingrid accetta la proposta con non poca fatica e, approfittando di una pausa rigenerativa della chemioterapia, Martha affitta uno splendido chalet di campagna nei pressi di Woodstock, in un bosco vicino a una riserva naturale.
Qui si dovrà compiere l’atto finale di un film dall’impianto in parte teatrale, anche se non esibito: in questa natura meravigliosa e incantata, in questa casa dal design splendido e perfetto, quanto raggelato – riferimento evidente alle costruzioni dell’architetto Frank Lloyd Wright – che sembra mettere definitivamente fuori campo l’energia della loro giovinezza, accentuata dal riferimento alla località di Woodstock, dove alla fine degli anni sessanta si svolse il celebre raduno rock pacifista. Quando la porta della stanza accanto sarà chiusa, l’atto sarà compiuto.
Tutto qui sembra sospeso, ovattato, fuori dal movimento del mondo, movimento peraltro in fase discendente. È già da un po’ che il cineasta spagnolo ha preso questa strada, anche se con fasi alterne. La giovinezza delle due donne nella New York degli anni ottanta è lo specchio della movida madrilena della giovinezza di Almodóvar, della spensieratezza dei primi anni della sua filmografia dominata da un’umanistica rappresentazione delle nevrosi come sale della vita. Giovinezza che si chiude con Tacchi a spillo (1991), quando finisce l’euforia degli anni ottanta post-franchismo e per la prima volta compare la malinconia. In Tacchi a spillo un uomo moriva in un chalet e una madre cercava di recuperare il rapporto con una figlia abbandonata per la sua carriera di cantante sempre in tournée.
La dimensione ovattata, quasi da mondo messo sotto formalina, imbalsamato, appare invece già chiara in Julieta, in cui il regista raccontava – come ho scritto a Cannes nel 2016, dov’è stato presentato nella sezione Concorso – “l’apocalisse dell’intimo di una donna come fosse quella del mondo intero: filma tutto in ambienti ovattati, quasi nessuna immersione nella folla. Il mondo diviene estraneo, inconoscibile. L’intimo è però quasi uno specchio del mondo reale di oggi, con domande terribili, atroci: perché la figlia la ripudia a tal punto? Quanti omicidi morali commettiamo, cancellando dalla nostra vita esseri umani che ci hanno amato e abbiamo amato? Il film è immerso in un’atmosfera sospesa, irreale, come nella splendida sequenza blu notte del cervo che insegue il treno in una campagna innevata, una delle più magiche viste al festival”.
È proprio con quel film che comincia a profilarsi il desiderio del regista di cimentarsi in una produzione internazionale per realizzare un film in lingua inglese, girato a New York e con Meryl Streep protagonista, che avrebbe interpretato Julieta in un doppio ruolo, senza cioè ricorrere a due diverse attrici per la giovinezza e per gli anni della maturità. Ora si è concretizzato in una produzione ancora più internazionale e in cui Warner Bros è sempre più presente nella distribuzione: quindici paesi, tra cui Italia e Spagna, su venticinque complessivi. Eppure, anche se ormai immerso nelle produzioni internazionali, il regista è più che mai fedele a se stesso, per nulla fagocitato dal sistema, come se fosse a casa sua. Del resto, sono presenti la sua società di produzione El deseo e il fratello Agustín, figura centrale negli equilibri produttivi.
Equilibri fondamentali per raccontare una storia come sempre molto cinefila, ma in contatto profondo con il dolore e la bellezza del mondo, come fossero una cosa sola. La citazione, che poi torna rielaborata, del finale di Gente di Dublino, libro di James Joyce e film di John Huston, ne è il paradigma: “La neve cade sul cimitero solitario, cade lieve nell’universo, e cade lieve su tutti i vivi e sui morti”. Ma poi, quando ne cade una strana, Martha dirà: “Fiocchi di neve color rosa. Quindi qualcosa di buono doveva pur averlo il cambiamento climatico. Ho vissuto abbastanza per vederlo”. Annuncio della dimensione più politica del film, che non è solo quella, pur fondamentale, che riguarda il diritto di scegliere la propria morte, l’eutanasia – tema delicato già trattato brillantemente da François Ozon – ma quello della fine, forse ineluttabile o forse no, della civiltà umana, dell’apocalisse planetaria.
La dimensione entropica del capitalismo è messa sotto accusa attraverso il personaggio di Damian Cunningham (John Turturro), che da ragazzo fu amante di entrambe le donne: uomo di cultura disilluso ma indignato, si sta inimicando molte persone poiché le accusa di ignavia, di assenza di consapevolezza. E sentenzia: “Niente accelera la fine del pianeta più del liberismo”. Torna come angelo custode di entrambe – “Vivi accanto a un’amica morente mentre il pianeta sta collassando” – ma è Ingrid, che ha “praticamente tenuto per mano la morte”, come dice lei stessa, a trasmettere a lui, e a tutti noi, un folgorante desiderio di vita e di bellezza, reggendo su di sé tutto il peso di quella morte annunciata.
Quando appare la figlia Michelle dietro alle grandi vetrate dello chalet, in particolare al mattino, nel biancore della camicia da notte, e allo spettatore sembra di vedere Martha, si rivela l’evidenza di un film di fantasmi. O forse no: in un film di incarnazione dei morti e disincarnazione dei vivi, con un movimento di reversibilità continua, sia l’amicizia allo specchio tra Ingrid e Martha sia il doppio Martha-Michelle dimostrano che tutto è intercambiabile e, soprattutto, che tutto è reversibile, se lo si vuole davvero. Prima che dopo sia tutto irreversibile.