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8 Dicembre 2024di Cristina Taglietti
Inizia con un padre che un giorno invita a pranzo i due figli e, finito di mangiare, annuncia che la loro nonna — sua madre — è morta. «Ma non era morta quando avevi due anni?», risponde il figlio, lo scrittore Andrea De Carlo che a quella vicenda ha dedicato un romanzo-investigazione familiare, La geografia del danno. Il libro r icostruisce con passo incalzante e stile sempre sorvegliato, la storia della nonna cilena, Doralice, per anni un segreto ben conservato che affonda le radici nell’Ottocento e in due continenti. Per suo padre, Giancarlo De Carlo, maestro dell’architettura, urbanista e teorico che ha fatto la Resistenza, quella madre è stata un enorme vuoto che non ha mai colmato, neppure quando avrebbe potuto: cresciuto dai 2 ai 18 anni con una zia, non ha voluto incontrarla quando lei lo ha cercato ormai diciottenne. Sui Navigli, nella zona di Milano in cui è cresciuto, Andrea De Carlo racconta a «la Lettura» l’eco di una storia antica fatta di misteri e doppie verità che ha segnato anche i rapporti col padre.
È la prima volta che lei scrive in prima persona di una vicenda che la riguarda, senza la mediazione di personaggi di invenzione…
«Mi girava in testa da anni ma era come se non fosse mai il momento buono: prima c’erano ancora i miei, poi mi occupavo di altro. Però la storia era lì e tutte le domande legate a essa non erano risolte. Uno dei patti con me stesso è stato di non inventare niente. Se fai il romanziere è una tentazione forte, soprattutto in un’indagine a distanza di così tanto tempo: riempire i vuoti con un escamotage. Io ho deciso di mettere sulla pagina solo ciò che veramente riuscivo a sapere. La cosa affascinante è che pensavo di avere pochi elementi per qualcosa di conclusivo e invece, via via, anche attraverso incontri imprevisti e persone che nemmeno conoscevo, come una zia di non so quale grado che era la memoria del lato cileno della famiglia, sono emerse cose che mi hanno permesso di arrivare vicino a una spiegazione su questa figura che incombeva come un’ombra sulla famiglia».
Scrive che una delle ragioni di questo libro è «capire come un danno possa ripercuotersi attraverso le generazioni». Perché usa la parola «danno»?
«Già da bambino percepivo un forte danno in mio padre dato dall’assenza di una madre, cosa traumatica per chiunque. Per lui è stata due volte dolorosa perché dai 2 anni ai 18 anni era stato convinto di essere orfano e si era attaccato molto alla zia paterna che lo aveva cresciuto prima a Livorno e poi in Tunisia. Sua madre si era fatta viva quando la sua vita stava cambiando. Lui non ha mai voluto investigare perché lei se ne fosse andata e perché non si fosse fatta viva prima. Poi ha trasferito a me e mia sorella questo danno originale: ci ha nascosto l’esistenza di una nonna, l’unica che avremmo avuto, viva, a Genova, a due ore di treno. Finché non è morta, e io avevo ormai trent’anni, non ne abbiamo saputo nulla».
Doralice non ha mai cercato voi direttamente?
«Ha fatto un tentativo con lui che l’ha respinta, credo brutalmente. Se abbia cercato di mettersi in contatto con noi, non lo saprò mai. In un’epoca pre-cellulari, pre-internet, poteva passare solo attraverso mio padre che ha deciso di nascondercene l’esistenza, tra l’altro d’accordo con mia madre. La loro era una complicità di altri tempi, forgiata con la Resistenza che li aveva uniti, in quegli anni durissimi in cui alcuni loro amici erano finiti male. Avevano temprato questa assoluta lealtà reciproca, anche a danno dei figli. Noi chiedevamo: come mai il nonno non ha una moglie? Dov’è la nonna? I bambini sono insistenti, e mia madre parava le domande sempre con una risposta: è morta. Una volta cresciuti poteva dirci la verità, e invece non l’ha mai fatto».
Ha metabolizzato questo inganno?
«È una cosa passata ma certamente per anni mi ha fatto molta rabbia. Mio padre ha sminuito la faccenda come se fosse irrilevante. Non avevamo un rapporto di confidenza quotidiana ma mi stupiva, mentre scrivevo il libro, che io non gli abbia mai chiesto niente. Nemmeno mia sorella. Avremmo potuto farlo. È vero che di solito un bambino, un ragazzo, tende a non essere molto interessato, la curiosità viene dopo. Arriva un momento in cui ti chiedi: ma chi erano veramente i miei genitori? Anche perché sono generazioni passate attraverso guerre, sconvolgimenti politici e personali».
Non avrebbe potuto scriverne quando loro erano ancora in vita?
«Era un argomento troppo delicato, li avrebbe disturbati tantissimo. Magari li avrebbe finalmente costretti a parlarne, a quel punto non avrebbero potuto far finta di niente. Però mi sarebbe sembrata una violenza, era un argomento troppo doloroso per ricostruirlo alle loro spalle. Parlando anche di loro, inevitabilmente. Oltretutto a interrogarmi ho cominciato parecchio dopo la morte di mio padre (nel 2005, ndr). È una storia dove si sommano varie stranezze di comportamento, compresa la mia. Neppure io sono stato razionale: avrei potuto chiedere, pretendere risposte. Per quanto riguardava la nonna sarebbe stato comunque troppo tardi, però avrei potuto sapere perché lui non avesse mai voluto risponderle. Posso immaginare che si fosse sentito tradito e abbandonato. Probabile che lei fosse una donna dal carattere difficile, che i miei pensassero fosse pericolosa e volessero proteggere me e mia sorella. Molte cose le ho scoperte dopo. Per esempio, quando siamo andati in Grecia a disperdere le ceneri dei miei genitori, c’era questo zio che era un po’ la memoria del lato siciliano-tunisino della famiglia, che ha raccontato alcuni dettagli. Poi una strana coda: dopo il libro ho prodotto anche un podcast dove racconto la storia da un’angolazione leggermente diversa, con musiche che inseguono un po’ le atmosfere. Mi ha scritto dal Brasile una lontana cugina che mi ha dato qualche elemento sul lato siciliano della famiglia e ho scoperto che c’era un fratello di mio nonno, suo padre, che era andato in Brasile. Insomma, all’inizio mi sembrava una sfida impossibile, invece sono riuscito a mettere insieme alcuni elementi».
Suo padre è cresciuto in Tunisia, ha avuto un’infanzia avventurosa. Nemmeno di questo parlava?
«Ha raccontato solo pochi episodi, che sono nel libro. Eppure dev’essere stata un’esperienza molto forte, in anni fondamentali. Ho scoperto che in Tunisia c’era stata una grande emigrazione di nostri connazionali. Si pensa sempre agli italiani in America, in Europa, ma a Tunisi, a un certo punto, ce n’erano 80 mila. Fu rifugio di molti dissidenti: mazziniani, garibaldini, liberali, antifascisti. Insomma, era cresciuto in un clima politicamente molto vivace che l’aveva formato. Nel suo atteggiamento chiuso c’era il fatto che aveva una formazione militare. E poi era anche lo spirito di una generazione. Il maschio tendeva ad avere quell’atteggiamento: non si poteva concedere sentimentalismi o tenerezze».
Con sua sorella aveva un rapporto più stretto.
«Sì, c’era una confidenza che noi non abbiamo mai avuto. Con lei parlava molto di più, sia di cose personali che di lavoro. Lui aveva un problema, sicuramente legato all’assenza della madre, che lo condizionò per tutta la vita. Aveva bisogno di sedurre qualunque donna incontrasse, che gli sembrasse interessante. Ma era un seduttore a vasto raggio. Una volta ho assistito a una lezione universitaria: gli studenti erano il pubblico teatrale e lui un attore sul palco. Lo aveva ereditato forse dal lato materno, una famiglia di attori. Era un uomo affascinante che aveva idee molto interessanti e riusciva a trasmetterle con grande energia. Certo, in un rapporto strettamente familiare, gli interessava più avere a che fare con mia sorella. Con me, come figlio maschio, aveva grandi difficoltà di rapporto, una sorta di rivalità, di ostilità, quasi».
E come la manifestava?
«In parte con una certa indifferenza. Poi di questo devo dire che gli sono stato anche grato: non ha mai cercato di instradarmi sul suo percorso».
Lei aveva rivalità con sua sorella per questo?
«Direi di no. Lei si occupa della sua eredità culturale. Ha fatto un lavoro meticoloso di trascrizione dei suoi diari, ha curato mostre, pubblicazioni. È la depositaria della sua memoria ed è molto protettiva. Ha una predisposizione a conservare: oggetti, fotografie, cose che mi sono state molto utili, perché io tendo a bruciarmi tutto alle spalle. Quando è uscito La geografia del danno gl iel’ho mandato subito. Le è piaciuto molto ma era anche sollevata: aveva paura che avessi un atteggiamento implacabile, che rappresentassi una famiglia mostruosa. Ma lo spirito non era assolutamente quello».
Lei se n’è andato abbastanza presto dall’Italia…
«Sì, prima negli Stati Uniti, poi in Australia. E poi ancora negli Stati Uniti. Non erano viaggi, era proprio emigrazioni, come succedeva verso le Americhe e in altri luoghi d’Europa alla fine dell’Ottocento. Si pensa di fare cose per la prima volta, poi si scopre che non è così».
Voleva segnare una distanza dalla famiglia?
«Non solo: anche dall’Italia. Erano gli anni Settanta: era un Paese cupo, incattivito, c’era un clima incombente, il terrorismo. E comunque avevo un sogno americano che mi veniva dalla letteratura, dal cinema, dall’arte. Mi sembrava che tutte le cose che mi interessavano di più venissero da lì. Avevo voluto andare alla fonte».
Suo padre l’aveva incoraggiata?
«Sì, però, pur avendo insegnato per anni nelle università americane, non mi aveva mai proposto di andarci. Altro esempio di non comunicazione. Ai tempi mi sembrò normale, poi ho pensato alla differenza con mia figlia: finito il liceo, mi ha detto di voler fare una scuola di cinema all’estero; l’ho aiutata tantissimo, ci siamo messi a cercare, l’abbiamo trovata a Londra… Ecco, con lui niente di questo. Ma forse è la cosa più sana, quindi nessun tipo di rivendicazione da parte mia».
Definirebbe la sua un’infanzia felice?
«Mi pare di ricordare di essere stato un bambino infelice, salvo d’estate, quando mia madre ci portava in Liguria, a Bocca di Magra, allora un paesino di pescatori. Lì ci toglievamo le scarpe e diventavamo dei selvaggi, avevamo tutta la vita fisica che qui non avevamo. L’infanzia milanese me la ricordo molto triste. La nostra era una famiglia ridotta, non c’erano nonni, non c’era un senso di radici. Non era una famiglia festosa. C’era il rigore, l’implacabilità tipica degli intellettuali di quegli anni».
Nel 1981 Italo Calvino le pubblica da Einaudi «Treno di panna», poi arrivano i bestseller, come «Due di due». Diventa più noto di suo padre, che comunque era una figura importante nel mondo culturale.
«Calvino è stato fondamentale: facendolo pubblicare e poi scrivendo un’introduzione ha come acceso un faro sul libro. L’avevo spedito a vari editori e nessuno mi aveva risposto. Anni dopo, leggendo la raccolta I libri degli altri, ho scoperto che Calvino era stato implacabile verso quasi tutti gli scrittori di cui aveva letto gli esordi. Per esempio, con Beppe Fenoglio che gli aveva mandato Il partigiano Johnny, uno dei più bei libri italiani del dopoguerra. Mio padre era sicuramente felice e orgoglioso per me, però anche in questa dimensione di contentezza c’era una venatura di rivalità. Una delle prime cose che mi disse quando vide le recensioni, molto positive, fu: beh, in architettura gli enfant prodige non esistono. Come a dire: se uno è bravo deve dimostrarlo molto a lungo. Un’altra volta mi raccontò che l’assessora di un Comune dove stava realizzando un progetto gli aveva detto: ma lei è il padre dello scrittore? Prima chiedevano a me: ma tu sei figlio dell’architetto? È stato divertente».