L’INTERVISTA
Gli inizi nella Bologna “alternativa”, l’incontro con il grande Lucio e con Francesco De Gregori, le canzoni dei Cccp, il cinema con Salvatores E, oggi, un nuovo album per guardare verso il cosmo e dentro di sé
di Luca Valtorta
Otto pezzi. Brevi. Per un disco essenziale. Tra autocoscienza e fantascienza, visione e introspezione,melodie scarne ma potenti, riferimenti letterari da William Burroughs a Salinger, che però suonano sorprendenti. 3021, il nuovo album di Angela Baraldi, gioca con i suoni e con le parole e spiazza continuamente perché “stelle” può far rima con “frittelle” se si ha fame e Poe con l’Edoardo Vianello diGuarda come dondolo. Con un sorprendente final glitter stile T.Rex. «L’ho intitolato3021 perché volevo qualcosa che andasse oltre ogni possibile immaginazione. Oltre un vuoto ancora più vuoto. Che ti può forse mettere anche un po’ di angoscia», spiega Angela Baraldi.
Un’artista difficilmente collocabile dentro un cliché. Perché ha fatto tante cose: molta musica ma anche cinema (il film e la serieQuo vadis, baby?di Salvatores da protagonista), tv (La compagnia del cigno di Ivan Cotroneo) e teatro (Nomadic con Telmo Pievani e Gianni Maroccolo).
Come è nata la tua passione per la musica?
«Avevo dei fratelli più grandi che mi hanno fatto conoscere Neil Young, Van Der Graaf Generator, Genesis, Pink Floyd. Però non i Beatles, non so perché. A un certo punto, scopro Patti Smith e vado in fissa. Sentivo di assomigliarle, anche fisicamente: pallida, spettinata con le occhiaie, non per forza strafiga. Io sono di Bologna: andai a vederla nel famoso concerto 1979. Era una che andava davanti alla telecamera, struccata.
Non ce n’era un’altra così. Capii che forse anch’io potevo fare musica…».
E tra gli italiani?
«I miei fratelli ascoltavano Battisti. Io amavo Anima latina:avevo imparato tutti i testi a memoria».
E Dalla?
«Solo quello più famoso: Com’è profondo il mare ».
Con Dalla poi hai lavorato. Ma come l’hai conosciuto?
«Grazie a un amico comune, Massimo Osti, che disegnava vestiti ed è stato tra i fondatori di C.P.
Company e poi di Stone Island.
Avevo prestato la mia voce per una mostra che fece nell’87 e una notte di Natale mi presentò a Lucio che, quando mi vide, disse: “Tu sei una cantante”. Non ho mai capito se Massimo glielo aveva detto e mi avevano preso in giro. Lui negava.
Dissi: “Che cos’è, un veggente?».
E poi cos’è successo?
«Che il giorno dopo mi sono ritrovata alla Fonoprint perché Ron stava cercando una voce femminile per duettare su una canzone. Si intitolavaCaterina e volevano un nome nuovo. Il provino andò benissimo, Lucio si entusiasmò enacque un’amicizia molto forte, istintiva, fatta di empatia. Non posso dire che faceva il papà perché non era così: Lucio aveva un fanciullo dentro di sé. Ti sembrerà ridicolo, ma era davvero come fossi sua coetanea. Aveva un’energia incontenibile: non ho più conosciuto uno come lui».
E poi ti ha voluta in tour…
«Sì, stavo facendo l’Accademia d’arte drammatica quando Lucio mi chiese se volessi andare a fare i cori nel tour che avrebbe fatto con Morandi: furono gli stessi docenti a dirmi di accettare perché era un lavoro di grande qualità. Fu una scelta che mi strappò da diverse cose ma era troppo allettante: ho visto tutta l’Europa ed è stata un’esperienza formativa molto forte. La rifarei».
Al tempo stesso frequentavi la Bologna alternativa.
«C’era grande fermento e la musica cominciava a sembrare una professione. C’era l’Italian Records di Oderso Rubini, gli Skiantos, i Gaznevada, gli Stupid Set».
Tra le tante cose che hai fatto c’è stato anche il lavoro sui Cccp con Massimo Zamboni: in pratica hai sostituito Giovanni Lindo Ferretti cantando le loro canzoni prima dellanuova reunion del 2024.
«Ero un po’ terrorizzata quando una volta lo incontrai, perché a quel tempo lui e Massimo non si parlavano. Giovanni però ruppe gli indugi dicendo che gli sarebbe piaciuto che durante uno di quei concerti io lo chiamassi sul palco facendo una sorpresa a tutti gli altri.
Era molto divertito, ma alla fine non andò in porto. Per me è stata un’esperienza importante e spero che abbia contribuito a far conoscere a un pubblico più giovane le loro bellissime canzoni».
E De Gregori invece l’hai conosciuto sempre grazie a Dalla?
«No. Io Francesco l’ho conosciuto dopo Sanremo quando ho vinto il Premio della critica con il brano A piedi nudi.Era il ’93 e venni contattata da Filippo Bruni, il suo road manager, che mi chiese se fossi interessata ad aprire i suoi concerti. Ovviamente dissi subito di sì, anche perché ormai avevo fatto tanti concerti, avevo un gruppo mio, ero stata a Sanremo, insomma mi sentivo sicura».
Cantavate insieme anche un pezzo di Dalla: “Anidride solforosa”.
«Fu Francesco a propormelo a metà del tour: una canzone bellissima».
Anche se il testo è di Roversi sembra proprio che parli di te.
«Sì, mi ci riconosco: l’entusiasmo e l’ingenuità un po’ mischiate insieme.
Roversi è stato un poeta, un po’ misconosciuto: a Bologna adesso c’è una fondazione dedicata a lui».
Nel tour in cui sei tornata ad aprire i concerti di De Gregori quest’anno, la ricantate di nuovo insieme.
«Sì, ed è stato molto bello. È una
canzone che mi dà grande energia: quando la canto, dopo sto meglio».
Oltre ad anticipare tematiche ecologiche c’è anche un senso di ribellione: tu sei sempre stata una persona che ha percorso strade che non erano quelle solite.
«Pagandone anche il prezzo. Lucio mi ha aiutato molto, ma non amava il rock e io il primo disco avrei voluto farlo pieno di chitarre. Ma era impossibile per quei tempi».
Tornando a De Gregori, il tuo nuovo album “3021” esce per Caravan, la sua etichetta. Gli hai fatto ascoltare qualche pezzo?
«Sì. Anzi, è stato proprio grazie a lui che questo disco ha visto la luce perché ha sentito alcune canzoni e mi ha offerto di pubblicarlo».
Ci stavi lavorando da tanto?
«Sì, in mezzo a molti altri progetti magari meno importanti. Avere il suosupporto mi ha dato sicurezza. Mi ha detto: “Smetti di farmi sentire queste canzoni come se fossero una schifezza: sono pezzi belli. Finisci ’sto disco!”. Ci stavo mettendo troppo tempo e questo mi ha spronato».
Ci avete lavorato insieme?
«No, mi ha dato delle dritte solo pratiche, come faceva Lucio: essendo anche loro artisti sanno cosa vuol dire. Quando sei nella tua bolla creativa hai bisogno di una visione esterna e certo lui è uno che se una cosa non gli piace, te lo dice in maniera diretta».
Hai lavorato per sottrazione.
«Assolutamente sì. Non è un disco lungo: otto brani e anche brevi. Mi piaceva l’idea di farli molto corti. Ci ho messo tutta la sincerità e la verità possibili, anche a costo di affrontare dissenso: è un lavoro piuttosto diverso da quello che “funziona” oggi».
“Cosmonauti” fa sognare.
«Viene proprio da un sogno che ho fatto e che mi ha liberato dal dolore di aver perso Lucio: eravamo io e lui in una navicella spaziale e poi volavamo sopra dei canyon e io dentro di me dicevo “non bisogna aver paura: lui non ne ha”. Ogni tanto si divertiva ad andare giù in picchiata urlando e allora lo facevo anch’io. Alla fine cisalutiamo, come invece non abbiamo potuto fare. Lucio parlava spesso della morte».
Anche “Preghiera della sera” affronta questo tema?
«In qualche modo sì: è stata ispirata daDon’t look up,il film con DiCaprio che parla di una cometa che distruggerà la Terra. Nello stesso periodo stavo leggendoL’innominabile attuale di Calasso, che tratta tematiche simili. La tecnologia, e nello specifico l’algoritmo, è diventata una religione e questo è molto pericoloso. Per fortuna esiste qualcosa che nessuno sa dirci esattamente cos’è: la coscienza umana. L’unica, vera speranza per la nostra sopravvivenza».
Infatti poi c’è un pezzo “umano, troppo umano”: “Cuore elettrico”.
«L’ho buttato giù in un giorno di grande sconforto per le notizie che venivano dal mondo: è stata la mia medicina. Qui c’è questa rima che dice: “Ora che fisso le stelle/ mi sembrano frittelle/ forse perché ho fame”. Non piaceva a nessuno, tranne a me. E, inaspettatamente, a Francesco. L’ho tenuta perché per me era fondamentale nel raccontare uno stato d’animo».
È una rima che rifugge dai canoni.
Credo sia un po’ la tua cifra, fatta di ribellione. Francesco è uno che ha scritto «i poeti, che brutte creature»: non poteva non apprezzarla.
«La paura del dissenso è qualcosa che ti ingessa e ti porta a una sorta di conformismo. In fondo la sincerità e la verità sono davvero le cose più sovversive che esistono».