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20 Gennaio 2025
di Federico Rampini
In che stato è l’America, all’esordio di un presidente descritto dagli avversari come un aspirante autocrate? Donald Trump s’insedia mentre la disoccupazione (al 4,1%) è tra le più basse del mondo e della storia. Nel 2024 i nuovi posti di lavoro creati sono stati 2,2 milioni. L’America non è mai stata così forte, il suo modello trionfa. Con il 26% del Pil globale ha la stessa posizione degli anni Novanta. Perfino la Cina perde terreno, e questo viene sottolineato dai cinesi: spostano in dollari centinaia di miliardi di risparmi; emigrano verso gli Stati Uniti in misura crescente.
In Giappone, Germania, Francia, Inghilterra, Italia, i salari operai sono inferiori al più povero degli Stati Usa.
Il luogo comune per cui l’America è il paradiso dei ricchi, il paese delle diseguaglianze estreme, è smentito dai fatti. Nell’ultimo trentennio il 20% degli americani più poveri ha avuto un aumento del 74% nei redditi. Dal 2019 ad oggi i salari delle categorie meno qualificate hanno avuto la crescita più dinamica: dieci volte superiore alla fascia più elevata. Si spiega perché l’America esercita un’attrazione irresistibile, e nei migranti in entrata figurano tutte le nazionalità del pianeta.
Eppure gli americani sono a maggioranza sfiduciati. I due terzi pensano che l’America è su una cattiva strada. La reputazione delle istituzioni è crollata, solo il 20% degli americani ha fiducia nel proprio governo (sono rilevazioni antecedenti alla vittoria di Trump, un trend di lungo periodo).
Una tesi interessante concilia le due facce della medaglia. Superiorità americana e disordine interno si alimentano a vicenda. Secondo un saggio di Foreign Affairs, la più autorevole rivista di geopolitica, l’America è la più forte «perché» è divisa, in un certo senso; ed è divisa al suo interno «perché» è la più forte.
Questa nazione è segnata da elementi strutturali — la posizione geografica e l’autosufficienza energetica la isolano e la proteggono; la demografia positiva ne fa un’eccezione in un mondo in decrescita — i quali alimentano un senso di sicurezza che genera errori. C’è poi la peculiarità della sua storia politica. Altre nazioni, prima hanno visto lo sviluppo di Stati forti e solo in seguito si sono democratizzate. Negli Stati Uniti è avvenuto il contrario. Prima sono nati come democrazia, solo alla fine dell’Ottocento cominciarono a costruire una burocrazia. Il loro sistema costituzionale esalta la libertà e limita il potere dello Stato, argina l’amministrazione pubblica e facilita gli affari privati. Questo accentua la divaricazione tra settori vincenti e perdenti, nell’economia e nella società. Le frontiere aperte all’immigrazione e al libero scambio operano proprio così: arricchiscono alcuni, spaventano altri.
L’oligarchia è in agguato con il duo Trump-Musk (più Zuckerberg e gli altri)? Joe Biden nel suo commiato ha lanciato questo monito e un’allusione all’epoca dei Baroni Ladri, i capitalisti che nella seconda metà dell’Ottocento esercitarono una enorme influenza in America. Il loro strapotere si fondava su concentrazioni monopolistiche in settori trainanti: banche, ferrovie, acciaio, energia.
Il tema «oligarchia» è reale. Il potere di Musk non si può sottovalutare, nella sua dimensione nazionale e mondiale, nella sfera industriale, tecnologica, strategica, mediatica. Però i democratici sarebbero più credibili se avessero lanciato lo stesso allarme quando Musk e la stragrande maggioranza dei capitalisti (da Big Tech alla finanza) stavano dalla loro parte, finanziavano le loro campagne elettorali, foraggiavano il conformismo dogmatico della woke culture. Cioè fino all’altroieri. Questo non significa abbassare la guardia su Musk, ma passare al vaglio il pulpito da cui vengono le prediche.
Conflitti d’interesse e tentazioni oligarchiche sono bipartisan. Non ne furono immuni presidenti progressisti come Franklin Roosevelt (delegò un’enorme influenza al banchiere Morgenthau nella Seconda guerra mondiale), John Kennedy (mise il numero uno dell’industria automobilistica Robert McNamara a dirigere il Pentagono all’inizio della guerra del Vietnam), Bill Clinton (nominò al Tesoro il capo di Goldman Sachs, Bob Rubin, con effetti rovinosi sulla deregulation di Wall Street). Chi sostiene che Musk è diverso dai precedenti per via del suo potere mediatico dovrebbe rivedere il film Quarto Potere di Orson Welles. Quel capolavoro del 1941 ricostruisce l’epoca in cui alcuni magnati dettavano la politica estera attraverso i loro giornali.
Gli europei sono severi verso la democrazia americana. Eppure nessun paese europeo ha tradizioni democratiche così antiche e radicate. La Repubblica statunitense vanta due secoli e mezzo di storia, non interrotta da re imperatori e fascisti come la Francia. Germania e Italia hanno democrazie fondate sul sacrificio dei soldati americani che vinsero Hitler e Mussolini.
A molti europei sfugge il ruolo dei contropoteri e bilanciamenti, che hanno sempre impedito all’autoritarismo di attecchire in America. C’è anche un federalismo poderoso, per cui California e New York continueranno a remare contro Trump.
Oligarchie, poteri forti, conflitti d’interessi, esistono anche dove i protagonisti non sono i capitalisti. Ci sono democrazie europee dove un’influenza enorme viene esercitata da corpi burocratici, lobby e corporazioni, sindacati, tecnocrati ed élite accademiche autoreferenziali. Non hanno il denaro di Musk ma sequestrano risorse economiche importanti, a fini di parte, e soffocano la crescita.
Tra gli elementi rassicuranti: Trump governerà di sicuro solo per 18 mesi, fino all’elezione di mid-term del novembre 2026: dopo gli elettori potrebbero negargli la maggioranza al Congresso.