ilario lombardo, francesco malfetano
roma
Non tutte le destre estreme sono uguali. Identitarie, conservatrici, populiste, xenofobe, nazionaliste, suprematiste, nostalgiche e ammiccanti al passato più nero della storia. Più o meno tutte però sono al Cpac di Washington, nel grande calderone che si apre alla corte di Donald Trump. Alle sette e quindici di questa sera ore italiane, l’ora di pranzo negli Stati Uniti, anche Giorgia Meloni è attesa in videocollegamento. Al momento della chiusura di questo articolo, ieri sera, fonti di Fratelli d’Italia e di Palazzo Chigi confermavano che la premier farà il suo intervento, nonostante dubbi e ripensamenti iniziali, e nonostante lo strappo di Jordan Bardella, il leader del Rassemblement National che ha annullato la sua partecipazione per prendere le distanze dal saluto nazifascista di Steve Bannon, ex consigliere di Trump e animatore dell’ala più radicale e populista del mondo Maga, il movimento che è cresciuto seguendo la scia del sogno di potere del tycoon repubblicano.
Non c’è un giorno di questi trenta che hanno sconvolto il mondo che fili liscio per Meloni. Quotidianamente alle prese con una scelta, e con il bivio che le impongono gli umori di Trump, la brutalità contro l’Ucraina, gli insulti sgrammaticati di Elon Musk agli alleati europei, e le sfide lanciate da Bannon, uno che un tempo sperava in Meloni e ora la provoca dicendole di tornare alle posizioni che aveva prima di diventare premier. Quali? Per esempio contro il globalismo, il libero mercato, l’Europa unita, la Nato. E poi l’Ucraina, che Bannon come Trump non vuole più sostenere militarmente.
Meloni, dunque, oggi sarà al festival del sovranismo, lacerato da un’ennesima faida a destra. «L’ho promesso a Trump» fa trapelare la premier. Nel suo discorso, a cui ha lavorato assieme a Carlo Fidanza, eurodeputato di FdI ospite in presenza, alla kermesse, Meloni cercherà ancora una volta un complicato equilibrio tra tutto quello che ha sostenuto fino al 20 gennaio, giorno del giuramento di Trump, e la nuova dottrina della Casa Bianca. La prudenza che tradiscono le circonlocuzioni dei collaboratori della premier lasciano intendere che sull’Ucraina potrebbe essere quasi impalpabile: un passaggio veloce per ribadire il sostegno, ma non con l’entusiasmo di un anno fa, quando nel suo discorso la definì «una nazione orgogliosa che sta insegnando al mondo cosa significhi combattere per la libertà». Ora che l’Ucraina è stata esclusa dai negoziati, e il suo presidente Volodymyr Zelensky insultato e delegittimato da Trump e da Musk, Meloni sceglierà una strada laterale, senza la passione di un tempo, quando a Washington piaceva la resistenza di Kiev. A differenza di quanto fatto fino ad oggi, la premier evocherà il concetto di pace «duratura» evitando l’aggettivo «giusta», ormai insostenibile. Semplicemente punterà su altro: patria, famiglia, critiche alla cultura woke e liberal, lotta alle migrazioni e difesa dei confini. Il ricettario più tradizionale del trumpismo.
Eppure mercoledì sera la premier era pronta a non andare. Confermano fonti a lei vicine come fosse indispettita dall’invito a Washington di Emmanuel Macron, per discutere di Ucraina, il giorno prima del bilaterale tra il leader Usa e il premier britannico Keir Starmer. Nonostante sia chiarissimo che la Francia e il Regno Unito sono i due Paesi europei dotati di bomba atomica, Meloni ci aveva sperato. L’immagine di lei, ospitata a una convention di partiti amici, 48 ore prima che il mai amato Macron varcherà le colonne della Casa Bianca, la stavano facendo propendere per il forfait. L’hanno dovuta persuadere che negli Stati Uniti lo avrebbero vissuto come uno strappo, a maggior ragione dopo l’addio di Bardella, e le opposizioni che in coro le chiedevano di non andare. La macchina del partito si è subito attivata per provare a minimizzare il gesto di Bannon: «È un provocatore nato, è stato allontanato della prima amministrazione Trump», spiega Andrea Di Giuseppe, deputato meloniano iscritto al partito repubblicano Usa, presente al raduno. La delegazione si fa inviare le immagini, per analizzare fotogramma per fotogramma il video del saluto romano, identico a quello che ha inchiodato Musk durante i festeggiamenti per il giuramento di Trump. Provano a spiegare che non è quello che sembra, che esistono anche fotografie di leader progressisti che, scattate al momento giusto, assomigliano a un saluto nazista. Nessuno di loro però, da Barack Obama a Hillary Clinton, ha mai messo il filosofo neo-reazionario di estrema destra Julius Evola in cima alle proprie letture.