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L’arte è infinita
23 Febbraio 2025
Così con il design si fa diplomazia culturale
23 Febbraio 2025«Un evento domina la mia vita: il mio cuore si commosse e credetti»
IL LIBRO
In occasione dei 70 anni dalla morte di Paul Claudel (1868-1955), proponiamo, nella traduzione e con la nota introduttiva di Giuliano Vigini, alcuni stralci di “Ma conversion” (1913), lo scritto in cui il drammaturgo e poeta francese racconta il punto di svolta della sua vita: la memorabile notte (25 dicembre 1886) a Notre-Dame in cui, al canto del Magnificat, scopre quella nuova relazione con Dio e con sé stesso che lascerà un’impronta indelebile sul suo universo poetico. Un documento illuminante per far capire come il suo passaggio dall’incredulità alla fede avesse davvero fatto di lui un uomo nuovo, dal quale si erano improvvisamente dissolti i conflitti, le inquietudini, i dubbi dell’esistenza vissuti fino ad allora: “In un istante, il mio cuore si commosse e io credetti”. In questa frase lapidaria c’è la definitiva morte al suo passato e il suo ritorno alla Chiesa.
Con gli anni, poco dopo la sua morte, al pari del resto di altri scrittori cattolici francesi della sua generazione allora in voga, Claudel è caduto nell’oblio, ma nella sua vasta e complessa attività artistica (teatro, poesia, saggistica), la critica aveva ormai riconosciuto in lui una delle grandi figure della letteratura contemporanea. Nonostante la feroce stroncatura di Benedetto Croce su “La critica” (1918) e più tardi anche sui “Quaderni della critica” (1946), Claudel, nel primo Novecento, si era imposto all’attenzione di intellettuali e pubblico. Croce riteneva invece che il “peccaminoso cattolico Claudel, Eschilo da boulevard” non avesse niente del letterato, ma fosse un folle che si spacciava per poeta e che ammantava di pseudoreligiosità − come altri “convertiti” estetizzanti, sensuali o mistici, invisi al filosofo − il suo teatro delirante e maniacale.
In realtà, è difficile non riconoscere il valore artistico e spirituale della sua opera e che il suo radicale cambiamento di mentalità e di pratica religiosa ha completamente impregnato la sua ispirazione poetica e teologica, alimentando anche tutti i temi portanti che popolano il suo universo cosmico e visionario, da “cantore del mondo totale”. Già alcune tra le sue maggiori opere degli inizi, come Cinque grandi odi (1910), L’ostaggio (1911), L’annuncio a Maria (1912) testimoniano alcuni passaggi della fede impetuosa e intransigente di Claudel, nel bel mezzo di situazioni di conflitto e disarmonia, solitudine e angoscia, passione e violenza, non di rado segnate anche dall’immagine del fuoco divoratore che prelude alla catarsi e alla purificazione. Questa perpetua, drammatica ambivalenza si può dire che rappresenti anzi il segno distintivo di tutta la sua opera, che resta però fortemente ancorata alla fede ritrovata, viva nella gioia e nella speranza che nasce dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, il salvatore di tutti.
Sono nato il 6 agosto 1868. La mia conversione è avvenuta il 25 dicembre 1886. Avevo quindi diciotto anni. Ma in quel momento il mio carattere era già molto sviluppato. Benché collegato a doppio filo a una generazione di credenti che hanno procurato parecchi preti alla Chiesa, la mia famiglia era indifferente e, dopo il nostro arrivo a Parigi, era diventata completamente estranea alle cose della Fede.
In precedenza, avevo fatto una buona prima comunione che, come per la maggior parte dei ragazzi, fu al tempo stesso il coronamento e la fine delle mie pratiche religiose […].
Vivevo nell’immoralità e a poco a poco ero caduto nella disperazione. La morte di mio nonno, che per lunghi mesi avevo visto divorato da un cancro allo stomaco, mi aveva provocato un forte terrore ed ero continuamente assalito dal pensiero della morte. Avevo dimenticato completamente la religione ed ero al riguardo ignorante come un selvaggio.
Il primo barlume di verità mi era venuto dall’incontro con i libri di un grande poeta, al quale sono riconoscente in eterno, che ha esercitato un ruolo determinante nella formazione del mio pensiero: Arthur Rimbaud. La lettura delle Illuminazioni e, alcuni mesi dopo, anche di Una stagione all’inferno era stata per me un evento di capitale importanza. Per la prima volta i suoi libri aprivano uno squarcio nella mia prigione materialista e mi davano un’impressione viva e quasi fisica del soprannaturale. Tuttavia restavo sempre nel mio abituale stato di asfissia e disperazione.
Questo era il giovane infelice che, il 25 dicembre 1886, si era recato a Notre-Dame de Paris per seguire le funzioni di Natale. A quel tempo cominciavo a scrivere e mi sembrava che nelle cerimonie cattoliche, giudicate con un’aria dilettantesca di superiorità, avrei trovato uno stimolo adeguato e materia per qualche esercizio decadente. Era con queste disposizioni d’animo che, gomito a gomito e strattonato dalla folla, assistevo con scarso entusiasmo alla messa solenne. Poi, non avendo niente di meglio da fare, feci ritorno per i vespri. I ragazzi della cantoria vestiti di bianco e gli alunni del seminarietto di Saint-Nicolas-du-Chardonnet che li assistevano stavano per cantare quello che avrei saputo più tardi essere il Magnificat.
Ero in piedi anch’io in mezzo alla folla, vicino al secondo pilone all’entrata del coro a destra, dal lato della sacristia. E fu in quel momento che si verificò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore si commosse e io credetti. Credetti, con una tale forza di adesione, con un tale sollevamento di tutto il mio essere, con un convincimento così potente, con una certezza tale da non lasciar posto ad alcun tipo di dubbio, che poi tutti i libri, tutti i ragionamenti, tutti i casi di una vita inquieta non hanno potuto far vacillare la mia fede e, a dire il vero, neppure a sfiorarla. Avevo avuto all’improvviso il sentimento lacerante dell’innocenza, l’eterna infanzia di Dio, un’ineffabile rivelazione.
Cercando, come ho fatto più volte, di ricostruire i minuti seguiti a questo istante straordinario, ritrovo quei momenti, che però formavano un solo lampo, una sola arma di cui la Provvidenza divina si serviva per raggiungere e finalmente vedere l’aprirsi del cuore di un povero ragazzo disperato: “ Come è felice la gente che crede! Era dunque vero? È vero!
Dio esiste; è qui. È qualcuno; è una persona come me! Egli mi ama e mi chiama”. Mi erano scese delle lacrime e venuti dei singhiozzi, e il tenero canto dell’Adeste [ fideles] accresceva la mia emozione. Un’emozione molto dolce, mescolata tuttavia a un sentimento di spavento e quasi di orrore! Perché le mie convinzioni filosofiche erano intatte. Dio le aveva lasciate sprezzantemente dov’erano; io non vedevo niente da cambiare; la religione cattolica mi sembrava sempre lo stesso tesoro di aneddoti assurdi; i preti e i fedeli mi ispiravano la stessa avversione che sconfinava con l’odio e il disgusto.
Questa resistenza è durata quattro anni […]. Per quanto fossi ancora estraneo ai sacramenti, partecipavo già alla vita della Chiesa; finalmente respiravo e la vita penetrava in me da tutti i pori. I libri che a quel tempo più mi hanno aiutato sono stati innanzitutto i Pensieri di Pascal – opera di valore inestimabile per quanti cercano la fede […]; le Elevazioni a Dio (su tutti i misteri della religione cristiana) e le Meditazioni sui Vangeli di Bossuet, e gli altri suoi trattati filosofici; il Poema di Dante, e i meravigliosi racconti di suor [Anna Caterina] Emmerick. La Metafisica di Aristotele mi aveva ripulito lo spirito e introdotto nei territori della vera ragione. L’Imitazione [ di Cristo] si collocava a un livello troppo alto per me e i primi due libri mi erano parsi terribilmente lunghi. Ma il grande libro che mi era aperto e dove ho fatto le mie lezioni era la Chiesa. Sia lodata per sempre questa grande madre maestosa, ai piedi della quale ho imparato tutto! Passavo tutte le domeniche a Notre-Dame e ci andavo più che potevo anche durante la settimana. Allora ero così ignorante della mia religione quanto si può esserlo del buddismo, ed ecco che il dramma sacro si svolgeva davanti a me con una magnificenza che sorpassava ogni mia immaginazione. Ah, non era più il povero linguaggio dei libri di devozione! Era la poesia più profonda e più grande; i gesti più magniloquenti che siano mai stati affidati a degli esseri umani. Non ero mai sazio dello spettacolo della messa e ogni movimento del prete si iscriveva profondamente nel mio spirito e nel mio cuore […]. Feci la mia seconda comunione, sempre nel giorno di Natale, il 25 novembre 1890, a Notre-Dame.