
SANTA MARIA DELLA SCALA, UNA GESTIONE ASSENTE CHE PENALIZZA LA CITTÀ
15 Marzo 2025I santuari postmoderni del culto dell’arte
L’evento culturale è divenuto un rito, le mostre ostensioni, i musei luoghi di devozione collettiva Dove si manifesta la dimensione perduta del sacro
testo di Giuliano Zanchi*
In Vite di scarto Zygmunt Bauman parla del museo come di un cimitero: «Possiamo dire che quel che i cimiteri sono per gli esseri umani vivi, i musei sono per la vita delle arti: sono luoghi dove smaltire gli oggetti non più vitali e animati». Questa analogia non fa che riprendere il tono di quelle pagine in cui Paul Valéry confessava di non amare troppo i musei: «Il mio passo si fa religioso. La mia voce cambia, diventa poco più alta che se fossi in chiesa, ma meno forte di quanto non mi accada nella vita. Presto non so più che cosa sia venuto a fare in queste solitudini cerate, che ricordano il tempio e il salone, il cimitero e la scuola» ( Le problème des musées). «Cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di
slanci troncati!», strillava Marinetti nel suo Manifesto del futurismo (1909). Santuari della cultura nella città postmoderna, i musei non nascono diversamente dai primi luoghi di culto del cristianesimo antico, sorti in prossimità delle necropoli. Questa origine non ha impedito a essi di divenire essenziali luoghi di vita e di socialità.
Questo costante rimbalzo di metafore funerarie, che naturalmente non dice tutta la verità sui musei, mette nondimeno in vista un aspetto che, se misconosciuto, comprometterebbe qualcosa di essenziale nella comprensione della loro ragione sociale. Esso mette in luce il carattere essenziale del rapporto che il museo istituisce fra gli “esemplari” che custodisce e l’assenza di cui sono testimoni. Essi irradiano la mancanza del contesto che li ha generati, e che non è più il loro habitat naturale. Se non proprio cimiteri, i musei sono orfanotrofi.
Il caso dell’arte sacra, materia prima nella fondazione delle grandi pinacoteche dell’Ottocento, mi sembra particolarmente emblematico. Un dipinto religioso entra in sala perché
esce di chiesa. Di matrice religiosa, oppure no, una selezione museale è in ogni caso sempre la celebrazione di un lutto. L’opera d’arte approda al museo perché esce dalla vita, e manca del suo passato. Essa sacralizza una distanza che la società moderna e contemporanea ha sviluppato come relazione al proprio passato, sperimentato come patria perduta di quelle narrazioni che non ci sono più contemporanee.
Musealizzare del resto è divenuto una forma del nostro rapporto col senso del reale. Nella civiltà dell’eterno presente quella della “musealizzazione” è una prassi che si applica non più solo alle opere d’arte o agli esemplari di una cultura esotica, ma a qualsiasi cosa. La “musealizzazione” è un principio operativo che si applica a tutta la realtà. Oggi si musealizza tutto. A velocità crescenti. Il caso del design è emblematico. Nella musealizzazione dell’oggetto di design, che mette sottovetro oggetti quasi appena usciti dall’agone del mercato, non si esalta soltanto l’incalzante creatività del disegno industriale, ma si celebrano gli effetti di una transustanziazione che trasforma la routine dell’innovazione in deposito di una tradizione, in modo sempre più accelerato. Quella del “modernariato” è la più fertile fabbrica di reliquie del nostro tempo.
È questo rapporto col passato, luogo dell’ultima trascendenza disponibile a una civiltà del disincanto, a intrecciare sempre di più la crescente popolarità culturale dell’arte con il suo altrettanto crescente risvolto spirituale. Culturalmente parlando, la dimensione dell’“ arte” ha ereditato la funzione di significante di quei valori postmaterialistici che un’organizzazione utilitaristica della socialità ha tolto dalla cassetta degli attrezzi essenziali, e che la crisi delle religioni ha lasciato senza referenza. Gratuità, creatività, sensibilità, ingegno, saggezza, pensosità, estro, oblatività, sono atteggiamenti confluiti nel complesso di una fruizione della “cosa” artistica che ha assunto tutte le caratteristiche del comportamento “spirituale”. La levitazione pubblica del suo campo di interesse ha nettamente assunto la consistenza di una via “contemplativa” condotta con altri mezzi e messa a disposizione del soggetto agnostico postnietzschiano.
Anziché fare qui una teoria del fenomeno, mi sembra più divertente raccontare le sue evidenze sociali.
A cominciare dalla trasfigurazione dell’intera storia culturale, in specie quella artistica, in una sorta di epos dello spirito, il cui racconto viene prodotto e ascoltato come permanente luogo di “rivelazioni”, di cui i “capolavori” del passato sono la concretizzazione oggettiva, e i loro artefici dei “medium” ammantati di prerogative paraumane. La “storia dell’arte” è divenuta un unico grande racconto di “prodigi” dello spirito umano, che se un tempo la lingua dei Longhi, degli Argan, degli Arcangeli, descriveva ancora con la dovizia scientifica dovuta alle cose umane, ora invece la narrativa dei divulgatori diffonde nel gergo dell’eccezionalità di uno “straordinario” non più puramente tecnico.
Il fatturato di una tale divulgazione è sintomaticamente lievitato. Le sue tonalità semi-mistiche si sono raffinate. Il tradizionale rigore erudito degli studiosi della disciplina ha progressivamente ceduto all’insufflazione romanzesca di una ricerca degli effetti enigmistici che, talvolta, rende il racconto della storia dell’arte una branca della letteratura poliziesca. Non si dà titolo di mostra, o di saggio, che non alluda a segreti da svelare, detta-
gli nascosti, nessi da riportare in luce, misteri da sciogliere, retroscena da ricostruire, una retorica che occhieggia a quella letteratura dello “svelamento” che anche in altri campi insiste sulla promessa di rendere finalmente noto quello che non si sarebbe mai voluto far sapere. Le biografie degli artisti si sono trasformate in agiografie laiche. Le loro opere hanno assunto le proprietà di vere “reliquie”. Le periodiche “riscoperte” o le nuove “attribuzioni” emanano regolarmente quel clima di euforia mistica che un tempo era riservata alla “invenzione” dei resti santi. I grandi eventi espositivi, che da vent’anni a questa parte sono divenuti stabili riti collettivi, hanno smesso di essere semplicemente “mostre” per divenire vere e proprie “ostensioni”. Inutile dire che il museo è divenuto un tempio civile che le amministrazioni trattano, con un senso identitario un tempo riservato alle cattedrali, nuovi santuari riservati alla soddisfazione di un precetto sociale che corrisponde al “dovere di contemplare”.
È da tempo, per la verità, che va preparandosi questa parentela. Nell’Ottocento era già evidente come una estetizzazione del rito religioso si stava accompagnando a una ritualizzazione dell’evento culturale. I fedeli delle Messe e i cultori delle mostre si stavano dando il cambio nell’occupare lo spazio che in qualsiasi società umana viene detenuto dalla “devozione”. Mi servo volutamente di questo termine che appartiene al vocabolario cattolico. Se “devozione” ha pur finito per significare la qualità scadente di certi sentimenti religiosi, la sua connotazione più profonda resta viva nei bisogni più reali della vita umana.
Definirei “devozione” quella sintesi di orientamento affettivo e adesione intellettiva che un “fatto di senso” non manca di incarnare e rappresentare, divenendone attrattivo terminale simbolico.
La “cosa artistica” sembra aver mantenuto ferma la sua posizione di catalizzatore designato della coscienza che cerca le sue devozioni. L’“opera d’arte”, anche quella musealizzata, sottratta al suo originario dispositivo religioso, isolata nel suo nuovo contesto fruitivo, seguita a manifestarsi come nucleo attrattivo di una relazione che per non essere chiamata “culto” richiederebbe perifrasi tanto dispendiose quanto alla fine reticenti. Attiva una stessa dinamica anche l’opera nata fuori contesto religioso, quella a tema profano, quella di ambiente ormai secolare, eppure sintomo di quella eccedenza significante che irradia immancabilmente i subliminali codici percettivi dell’ammirazione sacrale. In un divertente romanzo di Jorge Amado intitolato Santa Barbara dei fulmini, la statua della veneratissima santa, in viaggio dal Recôncavo alla Bahia di Tutti i Santi, arrivata regolarmente in porto a bordo di un peschereccio per essere esposta in una importante mostra di arte sacra, al momento dell’attracco prende inaspettata vita e, per qualche giorno, si sottrae al controllo generale andandosene in giro per sistemare situazioni di cuore che costituiscono l’altro filo conduttore del romanzo. In questa improvvisa animazione la statua di santa Barbara, quella dei fulmini, assume le sembianze di Iansã, una potente divinità della cultura Yoruba, portatrice di prerogative simile a quelle di santa Barbara. Sottrattasi alla scorta di una buona suora e di un prete in odore di comunismo, la santa fuggitiva e trasformista si sottrae soprattutto alle ambizioni di don Massimiliano von Gruden, colto prelato di origini tedesche, studioso di arte sacra e direttore del Museo diocesano in cui è tutto pronto per l’esposizione del prezioso esemplare scultoreo, gettando nello scompiglio anche la polizia e la stampa.
Apologo scoppiettante e traboccante di vitalità, la storia della santa fuggitiva è ambientata negli anni della dittatura militare, dove la moderna globalizzazione si scontra col retaggio etnico della cultura africana, e dove anche il cattolicesimo tradizionale, sotto il pontificato di Paolo VI, mette alla prova le sue recenti riforme conciliari. Ingredienti scelti e perfetti, per la costruzione di una interessante parabola dell’universo post-secolare nel quale tutti i valori cambiano e nello stesso tempo ritornano.
La statua di santa Barbara, tutelata dai competenti uffici del patrimonio e venerata da un popolo che la custodisce con gelosia, funziona come metafora dell’arte e della sua sacralità, che si sottrae tanto al culto della devozione tradizionale quanto ai criteri della tutela artistica. Uscita di chiesa, non entra neanche nel museo. Essa prende a vagare nei quartieri della città, miscelando nel proprio aspetto convenzione cattolica e nuove spiritualità, e intercettando situazioni esistenziali mortificate e messe in stallo dalle convenzioni, dalla burocrazia, dal calcolo politico e dalla grettezza della società.
Nessun “capolavoro dell’arte”, fuori dai romanzi, prende veramente vita dileguandosi per le strade della città, ma succede senza dubbio che si animi socialmente secondo registri che si sottraggono agli angusti confini dell’intellettualismo di disciplina e dell’intrattenimento
organizzato, benché i linguaggi e le forme si adeguino a questi due paradigmi del format artistico: mediante questo scarto esso torna in modo nuovo a toccare la carne viva delle esistenze, e non solo i neuroni elettrizzati delle menti.
L’arte è oggi il luogo di questa evasione dai ranghi, lo spazio di una coltivazione spirituale che non ha più una vera vitalità nell’arte sacra di chiesa, né esprime la sua vera portata nei nuovi incasellamenti del dispositivo museale.
Pur restando spesso in entrambe le situazioni, essa ne trascende i limiti, onorando funzioni e animando affezioni che nessuna delle istituzioni preposte prevede e controlla. Nella società post-secolare l’arte è il rifugio nel quale possono ritrovarsi a casa gli dei di Schiller, la devozione collettiva in cui riescono a essere praticati antichi slanci religiosi, il luogo di apparizione in cui può ancora agire il potere simbolico dell’immagine e la dimensione nella quale la bellezza si sottrae alla sua mistificazione cosmetica. È la radura sociale dove ancora splende qualche raggio di una trascendenza senza fissa dimora.
In questa radura, che irradia i suoi confini fluidi nel torrido ecosistema dell’attuale estetizzazione del mondo, si danno appuntamento avventori dalle più svariate provenienze, accomunati più dalla convergenza dell’arrivo che dalle intenzioni del movimento di partenza. L’arte offre comune asilo a esuli della natura più diversa.
Vi si trova la filosofia come il senso comune, l’istituzione ecclesiastica come il metodo pedagogico, il mercato culturale e il terziario spirituale, la letteratura e il cinema, la poesia e la musica, l’individuo pensoso e il narcisismo di massa, la psicanalisi come la scienza, il catechista di parrocchia e l’insegnante del liceo, la grande star decostruzionista, lo scrittore puntigliosamente agnostico, la televisione che non ha format senza il suo esperto d’arte, l’allenatore del pallone che fa il collezionista, il monsignore d’apparato, il romanziere, il regista d’avanguardia, l’istituzione bancaria, il grande marchio industriale, la moda, il carcere, l’agenzia sociale, le istituzioni della cura, il guru della divulgazione scientifica che non può più disertare il piano della suggestione estetica, l’habitué del museo, il cacciatore di conferenze, l’amatore di nicchia, il magnate che finanzia e il pensionato con la minima che si dedica finalmente alle proprie passioni culturali.
Gli avventori di questo spazio ecumenico, dalle loro provenienze eterotope, portano ognuno le proprie intenzioni più o meno esplicite. La vedette della filosofia post-metafisica viene all’arte per trovarvi la materia del sacro senza dover ricorrere al termine “Dio” (che non fa più buona educazione). L’ecclesiastico di ferrata cultura vi trova i mezzi per rianimare i temi del proprio depositum fidei (evitando di apparire dogmatico).
Il divulgatore scientifico può ricavarne l’aura della suggestione emotiva senza dare l’idea di derogare al proprio rigore razionale. Il soggetto pensoso della città agnostica vi attinge i tratti della dimensione spirituale senza portare lo stigma della persona religiosa. La persona religiosa, per parte sua, vi cerca un lessico della fede senza per questo dover apparire bigotto.
L’arte è insomma lo spazio mentale e performativo nel quale si possono ancora spendere le parole grosse della vita spirituale, e dove si possono trovare immagini che si manifestano col peso simbolico delle antiche icone di un tempo. In questo senso, una vera “arte sacra”, se la intendiamo nel senso di un’arte che sia capace di muovere socialmente i tratti di un culto pubblico e collettivo, non si trova più nelle chiese ma nei musei, e se si trova nelle chiese la si trova perché agisce nei registri del museo.
Il sacro dell’arte ha trovato il suo rifugio nel culto della cultura artistica di cui il museo è il nuovo tempio e in cui il “capolavoro”, termine assai estensivo, ripresenta a suo modo l’aura tipica dell’antica icona. Come la santa Barbara di Jorge Amado, il “capolavoro” è uscito di chiesa per rianimarsi di una vitalità simbolica realmente collettiva, e non fa ritorno nella sua sede religiosa se non portando con sé, come le ferite di Cristo, i tratti della sua trasfigurazione sociale. L’arte è oggi il rifugio del divino, che ama però uscire di chiesa e scorrazzare per la città.
*direttore della Rivista del Clero Italiano e della Collezione Paolo VI di Concesio