«È una cosa meravigliosa la distruzione delle parole!», «noi ne distruggiamo decine, centinaia, ogni giorno». Il solerte impiegato del Ministero della Verità, addetto alla cancellazione di sostantivi e aggettivi nell’angosciante scenario di 1984, ci ricorda che anche noi stiamo vivendo in una distopia. Big Brother Trump ha avviato una colossale operazione di censura inviando direttive alle agenzie federali americane affinché purghino documenti ufficiali, siti web e programmi di formazione scolastica: l’uso di una delle parole proibite (la lista ne comprende attualmente più di un centinaio) potrebbe giustificare il rifiuto di un progetto da parte dei finanziatori e fornire il pretesto per licenziare insegnanti, pilotare ricerche scientifiche, reprimere ulteriormente la libertà di espressione. Il paradosso è che questa campagna viene condotta in nome della lotta contro la censura – la “cancel culture” promossa, secondo i suoi detrattori, dall’ideologia woke e dai programmi di Diversità, Equità e Inclusione. La questione è così delicata, e cruciale, che deve essere approfondita a parte: mi riprometto di farlo in un prossimo articolo.
Diamo oggi un’occhiata alle parole interdette. Non stupisce trovare nella lista “genere”, “razza”, “disabilità”, “discriminazione”, “eguaglianza”: temi invisi a tutte le nuove destre globali, ostili ai diritti civili e alle rivendicazioni di giustizia sociale. Prevedibile è anche la presenza di “attivismo”, e persino di “cambiamento climatico”, da sempre al centro del mirino negazionista di Trump. Tra tante parole militanti, tuttavia, ce n’è una che sembra scivolata lì per sbaglio. Non è una categoria identitaria, non è un valore; è un semplice avverbio di modo, privo di manifeste connotazioni politiche e all’apparenza del tutto inoffensivo: historically, “storicamente”. Cerchiamo di capire perché rappresenti una minaccia agli occhi del potere autoritario. La risposta ce la suggerisce Rousseau – ma potrei illustrarla anche con l’aiuto di Marx, di Nietzsche e di Foucault, della Scuola di Francoforte, di qualsiasi grande storico o di un sociologo come Bourdieu: stiamo parlando dell’intuizione primaria che ispira non solo una determinata corrente del pensiero occidentale ma anche l’approccio specifico delle scienze sociali. Rousseau è un eroe di questa tradizione a partire dal suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, il cui formidabile titolo condensa l’intero manifesto della critica sociale contemporanea.
Siamo nel 1755, ancora sotto l’Antico Regime, e la società europea è strutturata in forma rigorosamente gerarchica, di fatto come di diritto. Gli esseri umani sono suddivisi in ceti dalla nascita, e le disuguaglianze sociali – di status, ricchezza, potere – sono considerate naturali, iscritte in un ordine eterno che è impensabile contestare. Ed ecco che Rousseau, con un gesto che sta alla morale e alla politica come la rivoluzione copernicana alla fisica e all’astronomia, inverte la prospettiva: mette la storia al posto della natura, e si chiede quali siano l’origine e i fondamenti, ossia le “ragioni di essere”, di queste presunte distinzioni naturali. La verità è che nasciamo tutti uguali, dotati da madre natura dello stesso valore. Le disuguaglianze si producono nel corso della storia umana, non sono innate ma istituite da atti di sopraffazione consolidati da lunghi oblii e lente sedimentazioni. Un giorno, un prepotente ha occupato un pezzo di terra gridando, “questo è mio! “, e da allora rispettiamo le barriere che separano nababbi e miserabili come se fossero leggi iscritte nel marmo. Ma se ripercorriamo all’indietro il racconto della storia umana constateremo che all’origine ci sono semplici fatti contingenti, di cui gli esseri umani sono i soli autori e responsabili.
Rousseau, che ha storicizzato persino la catastrofe naturale del terremoto di Lisbona (se non avessimo costruito in modo sconsiderato non ci sarebbero stati tanti morti! ), ci ha insegnato a pensare storicamente, e quindi politicamente, in tutti i campi della vita sociale, compresi quelli in cui lui ammetteva una naturale divisione dei ruoli, come il rapporto tra sessi. La storia è un gesto di relativizzazione che equivale a un’assunzione di responsabilità. Significa interrogarsi sulla legittimità di usi, diritti, istituzioni (per quale ragione devo obbedire? perché devo occuparmi sempre io delle faccende di casa? che titoli hanno costoro sulle terre che appartenevano alla mia gente?). Significa separare la necessità dalla contingenza, ciò che non può che essere com’è da ciò che potrebbe essere come non è. Significa riattivare il senso della possibilità e della libertà. Proprio perché le cose sarebbero potute andare altrimenti in passato è possibile immaginare un futuro diverso, e impegnarsi attivamente per realizzarlo.
Quando pensiamo storicamente entriamo nell’Illuminismo. Che non è un capitolo chiuso della storia della cultura ma un atteggiamento intellettuale e pratico sempre attuale, un ethos che non smette di riguardarci. «La filosofia che si interroga sulla relazione dell’uomo con il presente, sul suo modo di essere storico è radicata nell’Illuminismo», ha scritto Foucault. Ecco perché la campagna oscurantista di Trump presuppone la censura dell’avverbio historically. Mettetelo accanto alle parole proibite, così come a qualsiasi concetto, principio, fenomeno sociale che ritenete scontato, perenne, “naturale”. Il suo effetto sarà quello di una miccia: il fuoco della ragione critica.