di MAURIZIO MOLINARI
L’intento di Trump è porre assieme le basi di una coalizione multilaterale di dazi anti-Cina. È stato lo stesso presidente americano, parlando a “Fox Noticias”, a spiegare che vuole «porre diversi Paesi davanti alla scelta fra Stati Uniti e Cina» sul fronte di commercio e investimenti. La mente di questa strategia è il Segretario al Tesoro, Scott Bessent che, intervenendo davanti all’“ American Bankers Association”, si è detto convinto di «poter raggiungere un accordo sui dazi con i nostri alleati » al fine di «affrontare la Cina tutti assieme, come un unico gruppo». Ciò significa l’offerta di meno dazi alla Ue in cambio dell’isolamento di Pechino, ipotizzando la creazione di un blocco commerciale guidato dagli Stati Uniti destinato a contrapporsi all’iniziativa cinese della “Nuova Via della Seta”, attorno alla quale si sta aggregando il Sud Globale. Da qui anche il progetto del corridoio sulla “Via del Cotone” destinato a sostituire Pechino con New Delhi come fonte privilegiata di beni e servizi, creando un percorso di infrastrutture di nuova generazione per collegare Oriente ed Occidente lungo la rotta India-Arabia Saudita-Israele-Italia.
Il ruolo di Bessent è in crescita dall’indomani del “Liberation Day” del 2 aprile perché, se nell’annuncio dei “dazi reciproci” Trump aveva seguito i suggerimenti dei consiglieri economici “falchi” Peter Navarro e Robert Lighthizer, il successivo crollo dei mercati finanziari, con il serio impatto politico causato in America, lo ha spinto ad ascoltare l’assai più pragmatico Bessent: accettando la proposta di una pausa di 90 giorni per tutti ad eccezione di Pechino, nei confronti della quale invece la posizione è stata inasprita. Non a caso proprio a Bessent si stanno rivolgendo quei Paesi che vogliono trattare sulle tariffe, a cominciare dal Giappone che, fra una settimana, sarà il primo ad inaugurare questo nuovo tavolo a Washington.
Se le proposte finora arrivate dalla Commissione di Bruxelles per siglare la totale abolizione reciproca delle tariffe sono state accolte con distacco dalla Casa Bianca è perché non includono una simultanea ed esplicita presa di distanza dalla Cina. Questo significa che il ribaltamento geopolitico innescato dall’amministrazione Trump può portare gli Stati Uniti a dare più importanza ad una coalizione commerciale anti-Cina che non al patto strategico con la Nato sulla difesa dell’Ucraina dall’aggressione della Russia. Non siamo solo alla sostituzione della Russia con la Cina nel ruolo di rivale strategico globale degli Stati Uniti ma anche ad una maggiore importanza assegnata al potere del dollaro rispetto a quello militare.
Per l’Europa significa trovarsi davanti ad un difficile bivio, descritto dalla prudenza delle dichiarazioni di Meloni come anche dalle sue conversazioni con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, per preparare la missione a Washington. Entrambe sono consapevoli della delicatezza del momento. Sebbene infatti l’Unione Europea continui a ripetere, ad ogni livello, di voler mantenere saldo il legame con gli Stati Uniti, seguire Trump nella creazione di un’intesa commerciale e tariffaria anti-Cina comporta notevoli difficoltà.
La prima, e più strategica, viene dal fatto che più nazioni Ue – dall’Ungheria alla Grecia – sono da tempo parte del network della “Via della Seta”, con tanto di intese siglate ed infrastrutture concordate, mentre altre, a cominciare dalla Spagna di Pedro Sánchez, sono tentate di guardare verso Pechino in questo momento di difficoltà nei rapporti con Washington. Da qui l’offensiva di Xi Jinping che punta proprio all’Europa, proponendosi come leader capace di «salvare e rilanciare la globalizzazione» al fine di mettersi alla guida della coalizione sul libero commercio che proprio gli Stati Uniti hanno creato dall’indomani della Guerra Fredda. «Dobbiamo unirci per rifiutare scontri e protezionismo» ha detto Xi dalla Malaysia, per iniziare a costruire dall’Estremo Oriente una coalizione globale anti-Usa che guarda all’Europa. E si tratta di un’offensiva del sorriso assai sofisticata perché affianca i numeri del pil cinese ad un inedito “soft power”, basato sulla garanzia di stabilità. La Ue rischia dunque una seria spaccatura sulla Cina, anche perché l’economia del suo Paese più grande, popoloso e ricco – la Germania – è legata a doppio filo agli scambi con Pechino.
Ma non è tutto perché nel riassetto globale che Trump ha in mente c’è anche una maggiore dipendenza dell’Ue dall’energia americana. È stato proprio il presidente Usa a ipotizzare di «moltiplicare per 5 o 6 volte» l’attuale vendita di 50 miliardi di dollari annui di energia alla Ue per azzerare il deficit commerciale con l’Europa stimato dalla Casa Bianca in circa 320 miliardi. «Potremmo farlo in pochi giorni» ha aggiunto. Ma è una rivoluzione energetica tutta da costruire, con le inevitabili incognite. Ad esempio, lo scenario ipotizzato dal nuovo ambasciatore Usa in arrivo a Roma Tilman Fertitta, durante un’audizione al Congresso di Washington, è di spingere l’Italia a ridurre gli acquisti di greggio e gas dal Nordafrica per aumentare l’import dagli Usa. Ciò implica una maggiore diversificazione delle nostre forniture, ridefinire il “Piano Mattei” e quindi maggiori costi economici, con inevitabili ripercussioni di mercato che andrebbero a sommarsi agli effetti negativi della riduzione dell’interscambio con Pechino causata dall’imposizione dei dazi.
Se a questa agenda mozzafiato aggiungiamo la richiesta Usa per l’aumento delle spese per la difesa Ue nella Nato, la richiesta di Elon Musk di entrare con forza attraverso la Penisola nel mercato delle telecomunicazioni Ue ed il ruolo dell’Italia tanto nella ricostruzione dell’Ucraina quanto nel negoziato sul nucleare dell’Iran non è difficile concludere che l’agenda Trump-Meloni è fra le più importanti e rischiose nei rapporti bilaterali dalla fine della Guerra Fredda. Tanto più che avrà come appendice la visita di sabato a Roma del vicepresidente JD Vance.