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23 Aprile 2025Editoriale
Perché Francesco era sì un uomo di rara dolcezza
ma i suoi messaggi, calati nel Vangelo, erano diretti al limite della ruvidezza, per niente inclini al compromesso, quasi ossessivi nella loro perseveranza. E, soprattutto, mai timidi di fronte alla consapevolezza di andare controcorrente.
Mentre il mondo correva a riempire gli arsenali, un anziano pastore un giorno sì e l’altro pure denunciava gli esagerati guadagni che i commercianti d’armi ottengono dalle guerre. E a chi per fermare un’emergenza criminalità che non esiste proponeva di inasprire le pene e costruire nuove carceri, un gesuita innamorato della Chiesa contrapponeva la sfida della giustizia che va oltre la legge arrivando a domandarsi: « perché è toccato a loro» stare dietro le sbarre, «e non a me?».
Nessun garantismo all’acqua di rosa, intendiamoci, ma il desiderio di recuperare alla comunità chi si era perduto, costruendo vita sulle fondamenta del pentimento, facendola crescere con la forza della misericordia.
Se, infatti, si dovesse scegliere una frase per riassumere il pontificato di Bergoglio non si potrebbe che richiamare l’amore di Dio per ognuna delle sue creature, nessuna esclusa: «Il Signore perdona sempre». Dove sempre vuol dire tutti, uomini e donne in cammino, ciascuno con il proprio passo, rallentati dal peso del proprio io e viceversa più vicini alla meta ogni volta che riescono a uscire da sé stessi e a vedere con gli occhi del cuore chi sta loro intorno, specie se deboli e dimenticati. E non si tratta di una sfida politica, per quanto positiva possa essere, nel senso partitico del superamento delle differenze sociali, ma di immersione, se così si può dire, nell’umanità.
L’umiltà come strumento di fraternità, la consapevolezza dei propri limiti come via del perdono, l’attenzione agli ultimi come antidoto all’indifferenza, il peccato di sempre. Oggi più che mai. Stanno lì a testimoniarlo le centinaia di articoli, interviste, atti politici che accusano i poveracci di essere in realtà dei privilegiati, in viaggio premio, anche se a rischio della vita, verso non si sa bene quale obiettivo ma comunque da respingere perché vengono a rubarci chissà cosa, chissà come, chissà perché. La risposta a questa narrazione sta nella virtù umanissima della compassione, quella che si mette in ginocchio davanti alle sofferenze e parla con il vocabolario delle lacrime. Solo chi sa piangere, ha detto più volte Francesco a cominciare dal primo viaggio a Lampedusa, impara a capire il dramma degli altri e si prepara a vedere Gesù. Come si capisce siamo di fronte al racconto di una rivoluzione, che al mito del superuomo, all’arroganza dell’aggressività muscolare contrappone la forza disarmata della mitezza, e alle vittorie ottenute con le minacce e i bracci di ferro preferisce la fatica dell’ascolto. Vale in ogni luogo abitato da persone, ovunque ci sia un vecchio, un bimbo, un malato, un povero, un dimenticato che fanno fatica. Fratelli tutti, si potrebbe dire citando l’enciclica, nel senso che sono impegnati nella stessa ricerca della felicità che il Padre buono desidera per ciascuno dei propri figli. Papa Francesco ci ha insegnato che il primo passo per ottenerla è essere pienamente umani. Pronti a ricevere l’abbraccio di Dio, che consola le lacrime e libera dall’angoscia. E sa trovare persino nel cuore più intristito e duro, un seme di vita nuova.
Riccardo Maccioni