«IROMA l Sudafrica ha le miniere più profonde del mondo. Si può dire che sono stato all’inferno » . Dall’inferno è tornato per raccontarlo Roger Ballen, che adesso si aggira negli spazi bui del Padiglione 9a dell’ex Mattatoio di Roma. La sola luce è quella che proviene dalle sue immagini. Una successione di situazioni che è difficile etichettare sinteticamente come “fotografie”. Questo signore newyorchese di 75 anni, alto, dallo sguardo blu e l’aria serissima, talvolta spezzata da un sorriso ironico, vive a Johannesburg da una quarantina d’anni. Geologo di formazione e di professione per molto tempo, ha però sviluppato una certa dimestichezza con gli scatti sin da quando i genitori gli regalarono una Nikon per il diploma, nel 1968. Ma, ancora prima, era in confidenza con il pane quotidiano della madre, impiegata alla Magnumnegli anni Sessanta: le opere di Henri- Cartier Bresson o Elliot Erwitt, così come gli autori stessi, entravano e uscivano da casa. Eppure, Ballen, ormai esposto nei musei di tutto il pianeta, autore di monografie da collezione, non si può definire un fotografo tout court.« Sviluppo un’estetica – dice – E la fotografia è il mezzo attraverso cui la realizzo. La storia della fotografia mi ha formato, certo, ma poi bisogna trovare un percorso proprio. Posso dire che ancora di più sono stato influenzato da Samuel Beckett».
Quello che appare inAnimalism( la mostra a cura di Alessandro Dandini de Sylva in collaborazione con Marguerite Rossouw, fino al 27 luglio, catalogo Quodlibet) rende bene l’idea. Nella prima sala, ecco uomini e animali ritratti in bianco e nero, spesso simili tra loro. Come in Cat Catcher, dove è davvero facile sovrapporre l’espressionedel ragazzo cacciatorea quella del gatto preda, preso per la collottola. Le trame sul muro rimandano alle macchie sulla maglietta. Ma il gioco di similitudini è continuo. Accade anche in Brian with Pet Pig. L’immagine ha una valenza pittorica, dove nulla sembra lasciato al caso, anche se il risultato si consuma nell’attimo dello scatto. Caravaggio incontra Todd Browning. « È tutto nel momento. Niente photoshop prima, niente intelligenza artificiale oggi – chiarisce Ballen – quello che fotografo è tutto reale. Cerco una coerenza formale. Una forma semplice per significati complessi».
Sono incubi i suoi, immagini surreali: mani che afferrano piume di galline; una pecora che si erge su una cassettiera piena di vestiti, mentre una giraffa di peluche è appesa accanto; da un cappotto vuoto fuoriescono solo cinque dita che sostengono una colomba. René Magritte? David Lynch? L’artista annuisce. Ci sono loro e altriancora nel suo immaginario. Ma poi l’alfabeto visivo di partenza si contamina con visioni molto personali. È un atlante warburghiano impazzito, o solo autobiografico.
«Quando una persona o gli uccelli si muovono mentre fotografi, devi essere in grado di capire se questo si collega ad altre cose nell’immagine, che si tratti di un oggetto o di un disegno sul muro. Sono fotografie molto complesse che richiedono migliaia di passaggi per essere realizzate. Ho a che fare con tante, tantissime variabili e cerco di integrarle insieme in modo da poter creare una fotografia coerente che abbia davvero un significato. Ma, alla fine dei conti, non puoi dire a un uccello cosa fare, né puoi far capire a un topo come comportarsi in una fotografia».
Con il tempo, i disegni e i mascheramenti tendono a cancellare la figura umana che non è più riconoscibile nei lavori più recenti. Meglio i soli topi, persino, protagonisti di intere sequenze di opere; il pifferario di Hamelin è passato da queste parti. « Sì, ho smesso di realizzare ritratti – spiega Ballen – perché, alla fine, tendono a distrarre lo spettatore. Spesso una fotografia si giudica dalle facce che si vedono e questo non mi interessa. I disegni che si vedono nelle mie immagini rimandano all’art brut, ma anche alle prime pitture rupestri. Mi affascina quel gesto primitivo e universale » . Il risultato è onirico, ma frutto di un estremo controllo del mezzo; l’occhio è scientifico, anche se l’irrazionale è parte del “ viaggio” dell’artista: « Seguo sempre il mio istinto e cerco di confrontarmi con ciò che è reale e ciò che è immaginario. Vado dove mi porta il viaggio. Una cosa è importante in questo: la fotografia è molto più avanti della mia mente cosciente. Possono passare anni prima che capisca di cosa tratta realmente una serie che ho realizzato».
Nella seconda sala della mostra, l’esperienza è “ immersiva”, come oggi si abusa dire. In questo caso, lo è davvero. Otto proiettori rimandano sugli schermi in modo asincrono un centinaio di fotografie delle varie serie di Ballen: Outland, Shadow Chamber, Boarding House, Asylum of the Birds eRoger’s Rats. Le combinazioni che si creano al centro e ai lati dello spazio sono sempre diverse. È un modo completamente diverso di fruire della fotografia. Gli scatti appaiono e scompaiono e le pareti attorno restano bianche: « Non mi piacciono i muri bianchi. Per questo ho preferito installare le immagini, più che appenderle. Se le cose non funzionano, bisogna trovare una soluzione » . Il suono elaborato da Cobi van Tonder è un tappeto su cui il mondo di Ballen passeggia con coerenza.
Questo teatro dell’assurdo in bianco e nero termina con il terzo atto. Non aspettiamo più Godot: l’hanno mangiato. Le videoanimazioni di Apparitions sono una catena di infernali sketch dove, proprio nel luogo in cui venivano uccisi, gli animali si prendono la loro vendetta sull’uomo. È tutto un divorare di arti umani, di fauci spalancate su esseri stilizzati che somigliano a noi. La fiaba è rovesciata: il lupo, questa volta, vince. Hieronymus Bosch e Charles Perrault si danno la mano, giocando. Si esce dal buio della caverna di Ballen frastornati. Sembra di aver scoperto qualcosa, ma non si capisce cosa. «Nothing, “niente”, è la parola più bella del dizionario inglese – chiosa lui, serafico – Prima, da giovane, avevo domande; poi risposte; adesso né le une, né le altre » . Guardando quello che ha fatto, diventa difficile credergli.