Qualsiasi vocabolario spiega che il termine Bibbia è un singolare ricalcato sul plurale greco biblía, «libri». Dunque non un solo testo, bensì una biblioteca, plurale come l’etimologia del nome. «Libro dei libri» per antonomasia, la Bibbia è costituita dai testi che nell’ebraismo e nel cristianesimo sono riconosciuti come sacri in quanto ritenuti ispirati da Dio, ma non dettati e dunque interpretabili.

Le opere che ne fanno parte costituiscono un patrimonio immenso per la massima parte comune ai due monoteismi. Semplificando, i libri ebraici riconosciuti sono 24, e sono sacri anche per le diverse confessioni cristiane. Nella seconda metà del I secolo, in una lettera dell’apostolo Paolo (o di un suo discepolo) si legge infatti che tutta la «scrittura» è «ispirata da Dio» (2 Timoteo, 3,16).

In ambito cristiano questo insieme di libri viene denominato, sin dai primissimi tempi, «antico testamento». La loro suddivisione è però diversa (e dunque i numeri non coincidono): per limitarsi a un solo esempio, i testi dei dodici profeti «minori» sono raggruppati nell’ebraismo in un solo libro, mentre per le chiese cristiane sono appunto dodici, e così via. Ne consegue che nella tradizione cattolica la Bibbia ebraica è costituita da 46 libri (e altri, sempre ebraici, sono aggiunti dalle chiese cristiane orientali).

I 27 libri del «nuovo testamento» cristiano non sono invece riconosciuti in ambito ebraico. Anche se all’interno dell’ebraismo è crescente l’interesse per questa continuazione della Scrittura. All’Antico Testamento si riferisce di continuo il Nuovo Testamento, come sottolinea la recente «lettura ebraica» di Marco Cassuto Morselli e di Gabriella Maestri, che hanno tradotto e commentato in tre volumi (Castelvecchi) i libri neotestamentari, e da poco è stata edita in Italia un’opera innovativa come Il Nuovo Testamento letto dagli ebrei (Queriniana), diretta per la Oxford University Press da Amy-Jill Levine e da Marc Zvi Brettler.

Un fenomeno letterario plurale

La pluralità della Bibbia non è dovuta però soltanto al numero dei libri che racchiude. L’origine e la storia della letteratura biblica spiegano la varietà che caratterizza, anche a prima vista, questa biblioteca. Molto diversi tra loro, i libri della Scrittura si richiamano l’uno con l’altro come in un gioco di specchi, sono alla base di testi biblici apocrifi, sia ebraici che cristiani, e di innumerevoli interpretazioni; infine, hanno in parte ispirato il Corano.

Secondo la tradizione rabbinica la Scrittura ha settanta volti, espressione simbolica che indica la sua inesauribilità. All’inizio del medioevo Gregorio Magno la paragona a «un fiume insieme basso e profondo, nel quale un agnello può camminare e un elefante deve andare a nuoto». Anzi, come un essere vivente la Bibbia – arriva a scrivere papa Gregorio nei Moralia in Iob, lunghissimo commento al grandioso libro ebraico di Giobbe – cum legentibus crescit: cresce insieme a chi la legge.

Fenomeno letterario plurale, la Scrittura sacra di ebrei e cristiani nasce poliglotta e in un arco di tempo che per quanto riguarda la Bibbia ebraica si estende per quasi un millennio: quello che precede l’inizio dell’era cristiana. Poco più tardi, in meno di cent’anni – tra la metà del I secolo e i primi decenni del II – prende forma il Nuovo Testamento.

Quest’ultimo è composto da libri scritti tutti in greco; sono invece tre le lingue originarie dell’Antico Testamento: l’ebraico, l’aramaico, il greco. La seconda lingua era quella materna di Gesù, che conosceva naturalmente l’ebraico delle Scritture e, con ogni probabilità, parlava anche greco. E in greco, a partire dal III secolo avanti Cristo, la Bibbia ebraica viene più volte tradotta.

Non unica 

Questa pluralità di origine e di lingue ha una conseguenza importante: al tempo di Cristo non esisteva una sola Bibbia ebraica. I libri che la compongono circolavano in diverse forme e traduzioni, importanti per ricostruire il testo originale. Questa novità viene ora messa in luce da Julio Trebolle in un libro magnifico (El proceso de edición de la Biblia hebrea y griega, Editorial Trotta) che è quasi un giallo filologico lungo trenta secoli di storia della cultura.

Decisivi nella ricostruzione del biblista spagnolo sono i manoscritti di Qumran, la località nei pressi del Mar Morto dove dal 1947 (e fino alla metà degli anni novanta) sono stati scoperti un migliaio di testi ebraici, aramaici e greci, scritti negli ultimi tre secoli prima dell’era cristiana. In gran parte biblici, questi rotoli – suddivisi in quindicimila unità, spesso frammentarie e minuscole – sono molto più antichi dei codici biblici in ebraico fino ad allora conosciuti.

Per questo motivo il ritrovamento dei manoscritti del Mar Morto ha letteralmente rivoluzionato la storia della Bibbia, e di conseguenza quella sia dell’ebraismo che delle origini cristiane. Proprio in questi giorni sulla rivista «Plos One» un gruppo di studiosi – grazie alla datazione con il carbonio e all’analisi digitale comparativa delle scritture – ha sostenuto che 135 testi potrebbero essere più antichi di quanto si credeva. Rivelandosi così molto vicini alla probabile data di composizione di libri biblici come la misteriosa profezia, politica e apocalittica, di Daniele e come il celeberrimo Qoelet, il breve testo sapienziale (detto in greco Ecclesiaste) messo in musica da Pete Seeger e portato al successo dai Byrds.

Trebolle studia la Bibbia ebraica e i testi di Qumran da oltre mezzo secolo, e con maestria sa equilibrare la critica filologica e storica più tradizionale con metodi recenti. Come lo studio del dna delle pergamene dei rotoli, ricavate non solo dalla pelle di pecore, capre e stambecchi provenienti dalla regione desertica intorno al Mar Morto, ma anche da bovini allevati altrove. Il risultato, ottenuto da ricercatori dell’università di Tel Aviv, ha confermato l’intuizione del biblista domenicano Roland de Vaux – poco dopo la scoperta – sulla provenienza di questi testi biblici diversi, che dunque non erano esclusivi della comunità qumranita ma molto più diffusi.

Una ricerca continua

Il quadro complessivo ricostruito da Trebolle grazie a un’indagine convincente del secondo libro dei Re mostra infatti che il testo ebraico stabilizzatosi dopo l’anno 70 era preceduto da altre sue redazioni, perdute ma le cui tracce restano nelle traduzioni successive, opera di ebrei e di cristiani. Dall’«antico latino» del III secolo dopo Cristo si risale così, attraverso l’«antico greco» del III secolo avanti Cristo, all’«antico ebraico» precedente, poi sostituito da quello più tardo.

Di questa pluralità linguistica e testuale vi è stata costante consapevolezza, nell’ebraismo e nel cristianesimo, influenzando la storia della cultura: dalla prima metà del III secolo con Origene ai capolavori tipografici delle Bibbie poliglotte europee stampate tra il 1514 e il 1657, sino all’attuale moltiplicarsi di edizioni critiche della Scrittura ebraica via via sempre più attendibili. Grazie a una ricerca filologica e storica che rintraccia momenti e aspetti di una pluralità inesauribile.