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Nel pieno della crisi tra Israele e Iran, l’Europa tenta un’estrema manovra diplomatica. A Ginevra, i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Regno Unito – affiancati dall’Alta rappresentante Ue – incontrano oggi il ministro iraniano Araghchi per evitare una guerra regionale. L’obiettivo è convincere Teheran ad accettare nuovi controlli sul programma nucleare e un freno ai test balistici, nella speranza che questo apra uno spiraglio al negoziato e scongiuri un attacco americano.
Ma l’equilibrio è fragile. Trump ha già approvato un piano militare, tenendo però aperta la porta al dialogo. «Deciderò entro due settimane», ha fatto sapere. Gli Usa vogliono disinnescare la minaccia nucleare, ma non puntano – almeno ufficialmente – al cambio di regime. Il punto di rottura resta la base di Fordow, dove l’Iran continua ad arricchire uranio sotto terra. Le forze speciali Usa preparano scenari d’intervento mirati. E Londra, pur spingendo per la diplomazia, non esclude un supporto militare.
Dietro le trattative ufficiali, però, si muove una realtà ben più complessa. L’Iran, indebolito da settimane di raid israeliani, resta saldo nelle mani dei Guardiani della Rivoluzione. La società civile è schiacciata: il filosofo Ramin Jahanbegloo, torturato in carcere e oggi in esilio, denuncia l’assenza di ogni dialogo tra il regime e il popolo. “I giovani non vogliono combattere, ma nemmeno approvano i missili israeliani. La gente vuole vivere, non morire per gli ayatollah”.
Anche l’intellettuale Orly Noy, iraniana di nascita e cittadina israeliana, invita a distinguere tra regime e nazione. “Israele non può distruggere l’Iran: è parte della regione. Pensare di essere invincibili ci sta portando verso l’abisso. Non ci sconfiggeranno gli iraniani, ma la violenza che ci domina”.
Nel frattempo, l’Iraq cerca di restare fuori dal conflitto. Il premier al-Sudani è sotto pressione: evitare che le milizie sciite filo-iraniane si attivino, senza perdere il sostegno del proprio blocco politico. L’ayatollah Sistani ha lanciato un appello alla prudenza, mentre Moqtada al-Sadr ha chiesto silenzio e disciplina. Ma il rischio di una “libanizzazione” dell’Iraq è reale.
Tutto si gioca in un quadro internazionale sempre più cinico. La frase del cancelliere tedesco Merz – “Israele fa il lavoro sporco per noi” – ha suscitato scandalo. Ma rivela una verità scomoda: le regole del diritto internazionale vengono ormai applicate in modo selettivo. Oggi si colpisce un ospedale e si condanna a giorni alterni. Se le leggi non valgono per tutti, allora non valgono per nessuno.
L’Europa, che un tempo parlava di pace e diritti, rischia ora di essere solo un attore di contorno. Ma la diplomazia, per quanto debole, è ancora l’unica alternativa al disastro. Per Israele, per l’Iran, per tutti.