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Nel cuore del nostro tempo, segnato da un eccesso di immagini, da un narcisismo diffuso e da un’inquietudine che scivola spesso nell’indifferenza o nell’angoscia, si apre una domanda radicale: che fine ha fatto il desiderio? Non il desiderio come godimento immediato, come consumo compulsivo o come esibizione di sé, ma quel desiderio che tocca l’essere, che apre uno spazio etico, che ci espone all’altro e ci mette in gioco come soggetti. È su questo terreno che si incontrano Clotilde Leguil, psicoanalista lacaniana, e Francesco Postorino, scrittore e filosofo, in un dialogo denso e necessario.
Attraversando riferimenti che vanno da Magritte a Nietzsche, da Sartre a Lacan, i due autori interrogano le trasformazioni profonde dell’identità contemporanea: lo smarrimento del soggetto dietro il proliferare dell’ego, la confusione tra immagine e realtà, il rischio di ridurre l’altro a specchio o minaccia. Eppure, in questo scenario dominato da un “troppo” che intossica e stordisce, il desiderio può ancora rappresentare una forza di resistenza, un argine alla pulsione di morte e alla logica spietata del godimento neoliberale.
Riscoprire l’etica del desiderio – come invito a scegliere, a rinunciare, a incontrare l’altro nella sua alterità – significa oggi riaprire la possibilità stessa dell’esperienza umana. E, forse, salvarsi. (P.P.)
IL CONFRONTO
L’etica del desiderio per salvare l’essere
Clotilde Leguil e Francesco Postorino si interrogano su un tema della nostra epoca, dove non esiste solo il godimento In realtà, va recuperata quella sete – in un tempo come il nostro – per cui Nietzsche diceva: «Abbiamo bevuto tutto il mare»
CLOTILDE LEGUIL, FRANCESCO POSTORINO
Francesco Postorino: René Magritte, in una celebre opera di quasi cento anni fa, raffigura una pipa precisando che ceci n’est pas une pipe, nel senso che quella del dipinto è solo un’immagine e non può possedere le caratteristiche intrinseche di una vera pipa. Sembra banale, eppure oggi siamo talmente aggrappati alle nostre fragili rappresentazioni che non si riesce più a distinguere il vero dal falso, la realtà dalla pura immaginazione. Fra i disagi che offre la postmodernità vi è, infatti, un eccesso di immaginario che mette in pericolo le ultime certezze rimaste: il senso della realtà e l’impulso di vivere. Se per “vivere” s’intende un dettaglio concreto, frutto di sudore e sangue, scelta e desiderio, l’io del 2025 fatica a varcare la soglia e rischia di acquisire la forma di una “carcassa” situata nell’“eterno ritorno del niente, dove per esempio scorrono le immagini ripetitive di un selfie. L’io non parla a
ma in, cioè parla dentro le sue segrete astrattezze che lo riducono a oggetto tra gli oggetti, a un (non)essere troppo distante dall’Essere.
Clotilde Leguil: Anch’io, come lei, sono sensibile all’influenza del narcisismo nel nostro tempo. Del resto, lo “stadio dello specchio digitale”, nato con il Web, ha trasformato i rapporti sociali, i rapporti con il proprio corpo e la relazione con l’altro. Ora, questa «mostra di sé» a tutti, in ogni momento e senza discontinuità, sulla Rete, crea effetti d’inflazione narcisistica e forse anche di asfissia del Je o del soggetto stesso. La distinzione lacaniana tra l’ego e il soggetto, che si ritrova anche in Sartre, mi sembra precisa al fine di chiarire il presente: l’ego è una produzione narcisistica, mentre il Je emerge con la parola e fa ascoltare il desiderio.
Il mondo digitale può innescare un effetto d’ipnosi e di cattura della libido simile a una forma di potere. L’alienazione del soggetto alla sua immagine, nello sguardo anonimo della Rete, è una modalità di tale potere, che non permette né di decifrare il desiderio né di accedere al mistero del suo essere. Tuttavia, non smetterò di elogiare il digitale e i social network come fattore politico e possibilità di resistenza agli abusi del potere. Si tratta forse del paradosso del nostro tempo: da un lato, un’inflazione narcisistica che genera lo scatenarsi di passioni aggressive le quali indeboliscono la democrazia; dall’altro lato, una via inedita per introdurre nuove cause in favore della democrazia stessa: come il movimento #metoo
e la resistenza delle donne iraniane. Una via, quest’ultima, che permette di cortocircuitare gli effetti nocivi del potere.
FP: Fa bene a sottolineare la natura di questo “paradosso”. Credo, però, sia opportuno capire in che luogo è collocato. Provo a spiegarmi. Per secoli l’uomo ha calpestato la terra con un occhio rivolto al cielo. “Terra” implica scelta, rischio, pudore, realismo e responsabilità. Oggi, invece, siamo scesi in un piano inferiore scegliendo di abitare in quel luogo terribilmente pacifico che Dostoevskij chiama “sottosuolo”, dove l’io diviene “ombra” in quanto perde pezzi di umanità e si appresta a identificarsi con Nessuno; qui la parola è un suono rotto, il grido è chiasso, il dolore è un lamento sterile, la gioia è divertissement, e tutto questo perché manca il desiderio, senza il quale non si può vivere!
Forse è il caso che si provi a uscire dal seminterrato esistenziale per indirizzarsi verso il “piano terra”, in cui le ombre-immagini cedono il posto ai pronomi. Una delle sfide più importanti e difficili di oggi è capire come può il Nessuno della postmodernità recuperare la sete del desiderio nell’epoca in cui, tuona Nietzsche, «abbiamo bevuto tutto il mare».
CL: La questione del desiderio è essenziale nella nostra epoca. Ma bisogna precisare di quale desiderio si tratta. Non esiste solo il desiderio di godere. Il desiderio, infatti, ha una dimensione etica in quanto pone ciascuno di fronte alla necessità di rinunciare a una parte del godimento. Ma è vero che è difficile vedere chiaro circa il proprio desiderio. Come riuscire a perseverare nel nostro essere, salvaguardando il nostro desiderio e quello dell’altro, senza perdersi nel “troppo” del godimento?
La questione del consenso, divenuta centrale per interrogare l’esperienza amorosa e sessuale nel XXI secolo, rinnova proprio quella del desiderio. Ora, la psicoanalisi permette di chiarire in modo inedito le zone grigie del consenso facendo una distinzione tra il desiderio, la pulsione e la forzatura. Ciò che lei chiama «la sete del desiderio », io lo chiamerei con Lacan «l’etica del desiderio». Per Lacan, il desiderio è ciò che permette di fare limite in ciascuno alla pulsione di morte. In questo senso, se viviamo nell’epoca del “tossico” – come l’ho definita in L’ère du toxique (PUF, 2024), ovvero in una fase legata al “troppo” del godimento – non possiamo che provare anche dell’angoscia. Il desiderio è allora ciò che imprime una direzione nuova all’esistenza, mettendo un limite all’imperativo del godimento tipico dell’universo neo-liberale e dell’ingranaggio della logica capitalistica.
FP: Il “limite” al godimento risiede anzitutto nel desiderio di incontrare il volto. Ma oggi sembra quasi impossibile sperimentarlo, in quanto il nichilismo ha talmente stravolto il cuore dell’uomo che questa verità (il desiderio del con e del per) rischia di esaurirsi in una frase ad effetto o in una finzione ideologica che, come direbbe lei, copre un gioco “tossico”. Un modo per disintossicarsi, e dunque spostarci dal sottosuolo, è porre finalmente la domanda che oggi manca: chi è l’altro? E perché è così difficile incontrarlo? Il grande errore, a mio avviso, sta nel tentativo di inquadrare l’altro a priori e in due false categorie: l’angelo disincarnato e un personaggio dell’inferno sartriano; entrambe le definizioni rappresentano due false e comode aspettative, due estremi che ci impediscono, fin dall’inizio, di varcare la soglia. L’altro è indicibile e indefinibile! Resta il mio mistero.
Non si riesce, pertanto, a comprendere che l’incontro con il secondo pronome (il tu) è un «duro lavoro». Certo, come ogni lavoro, non mancano inciampi e fallimenti. Ma se non viene interpretato con pigrizia o volgare utilitarismo, l’“incontro-lavoro” può tradursi in passione, sacrificio, pazienza, complessità e spinta vitale verso ulteriori e specifici desideri.
CL: Sì, bisogna salvaguardare le condizioni dell’incontro con l’altro, in un’epoca in cui è forte la tentazione della segregazione. Non è sufficiente dire l’enfer, c’est les autres, o ancora «l’altro è tossico», ma occorre vedere in noi stessi quel che ci intossica: la nostra pulsione di morte. Rendere possibile l’incontro con l’altro, significa inoltre acconsentire alla contingenza. Ecco perché la dimensione dell’enigma deve essere preservata. L’incontro amoroso, ad esempio, si fonda sempre su un malinteso; tuttavia, se il soggetto si forza a ciò che non desidera, finisce per perdere di vista proprio il suo desiderio lasciando che la pulsione prenda piede dentro di sé. Ed è qui il pericolo o l’«inferno» in senso psicoanalitico. Il legame amoroso poggia su un consenso che comporta sempre un rischio. Bisogna, pertanto, difendere la bellezza dell’esperienza dell’incontro, distinguendo però l’incontro essenziale dal cattivo incontro.