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22 Giugno 2025
Col corpo umano dentro l’arte e la storia
22 Giugno 2025Scrittori tedeschi «Io» racconta l’esistenza mascherata di Wolfgang Hilbig (1941-2007), lo scrittore spiato dalla polizia segreta: un «esperimento mentale» appena tradotto da Keller
Il 10 maggio 1978 Wolfgang Hilbig viene fermato dalla polizia di Meuselwitz, il piccolo centro industriale e minerario, sperduto nell’entroterra socialista, dove quella che diventerà una delle voci letterarie più importanti del secondo Novecento tedesco ha vissuto la prima metà della sua vita: l’oscuro episodio, che si protrae fino al 3 luglio e lo vede sospettato di vilipendio alla bandiera, offre piuttosto alla Stasi un pretesto per interrogarlo a proposito dei suoi contatti con la Germania Ovest. Appena due mesi prima l’allora aspirante scrittore, che stava tentando da molti anni, senza successo, di pubblicare la sua prima raccolta di poesie in patria, aveva infine sottoscritto un contratto nientemeno che con S. Fischer, celebre editore di Francoforte sul Meno: l’anno seguente non solo Hilbig riesce a dare alle stampe abwesenheit («assenza») – operazione condotta nel rispetto delle direttive ufficiali, ma nonostante ciò sanzionata per traffico di valuta estera dall’Ufficio per il diritto d’autore della DDR –, e si sposta a Berlino Est.
Le settimane trascorse in prigione e il successivo trasferimento nella capitale sono due esperienze cruciali: è durante il fermo del ’78, prima di essere rilasciato senza accuse, che Hilbig si vede confrontato con la proposta di collaborare in qualità di informatore della Stasi. Il suo rifiuto è la probabile ispirazione del secondo romanzo, scritto a Edenkoben un decennio dopo, nella fase epocale che attraversa la caduta del Muro e la riunificazione tedesca, e ambientato proprio a Berlino Est. Pubblicato nel 1993 con il titolo «Ich» – racchiuso tra virgolette nell’originale –, Io è il primo romanzo dell’autore a uscire in Italia per Keller (pp. 368, euro 20,00), che nel 2020 ha dato inizio all’operazione di recupero editoriale con la coppia di racconti lunghi Le femmine e Vecchio scorticatoio, tutti abilmente tradotti da Roberta Gado e Riccardo Cravero.
Avviato fin dalla giovane età al lavoro manuale, Hilbig conduce nella DDR una doppia esistenza: di giorno lavora come operaio – in particolare come fochista –, di notte si dedica alla scrittura. Nel 1985 riesce infine a trasferirsi nella Repubblica Federale grazie a un permesso di espatrio temporaneo, in seguito rinnovato: la complessa esperienza di dislocazione verrà rielaborata nel terzo e ultimo romanzo Das Provisorium, «Soluzione provvisoria». Ostacolato dalla politica culturale ed emarginato dalla scena letteraria in patria, straniero al di là del Muro ed estraneo nella Germania riunificata, l’autore di Meuselwitz restituisce nella sua opera una voce critica, non inquadrabile nella letteratura convenzionale della DDR, in cui si condensano le condizioni esistenziali, sociali e politiche di un’intera epoca.
Le ripetute ingerenze del potere statale segnano radicalmente il suo pensiero e la sua scrittura: i protagonisti dei romanzi e dei racconti di ispirazione autobiografica sono spesso operai e aspiranti scrittori dalla doppia vita, pedinati o sottoposti al controllo degli organi governativi. Io rappresenta tuttavia un caso a sé, descritto dall’autore stesso in termini di «esperimento mentale» e di «biografia interiore» di un informatore non ufficiale della Stasi che, a differenza di Hilbig, accetta di farsi assoldare dalla polizia segreta nella speranza di ottenere l’autorizzazione a trasferirsi in quell’Ovest dove poter scrivere liberamente.
Il romanzo non è a ogni modo riducibile agli scandali che imperversano sulla stampa tedesca nei primi anni novanta, attorno a figure come Sascha Anderson e Rainer Schedlinski, due esponenti di spicco della scena letteraria di Prenzlauer Berg rivelatisi ex informatori: le aspirazioni letterarie del protagonista di Io danno modo all’autore di esplorare, se mai, la finzionalità su cui si fonda lo stesso stato socialista. Nelle parole di Hilbig: «Per me la Stasi era un apparato diffuso (…) e finzionale (e questo valeva per i suoi stessi collaboratori)».
Narrato retrospettivamente negli umidi cunicoli di caustico cemento che serpeggiano tra gli scantinati nel ventre della capitale, dove il protagonista attende di fuggire in seguito al proprio tracollo esistenziale, il romanzo oscilla tra la prima e la terza persona nel tentativo di ricostruire, attraverso ricordi frammentari e associazioni opache, la concatenazione di eventi che ha condotto alla dissoluzione della sua identità. In un vortice di ricordi scomposti, in cui la realtà del protagonista e la biografia dell’autore si stemperano nel sogno, il lettore ripercorre in tre atti le oscure vicende che hanno portato M.W., in seguito chiamato solo W. – il nome di battesimo di Hilbig era Max Wolfgang –, a lasciare il piccolo paese natale per la capitale, dove assume l’identità della spia Cambert, che da ultimo diventa semplicemente C.: «Mi sono sempre sentito un uomo con due funzioni – spiegherà Hilbig in un’intervista –, era pressoché impossibile che una di queste persone esistesse per intero: di fatto erano A e B e, a un certo punto, immaginai che si combinassero nel personaggio C». Inizialmente incaricato di pedinare Reader, un affermato scrittore i cui testi impetuosi sembrano celare una forza oscura, C. devia dalla sua traiettoria quando prende a tallonare senza autorizzazione una misteriosa ragazza occidentale, da lui notata durante le letture pubbliche: sarà dunque la stessa ossessione per l’Ovest a innescare la rovina di un’identità corrotta dal potere.
È così che il monologo interiore del protagonista si disgrega in un flusso di pensieri dall’andamento disorganizzato e inarrestabile, ipnotico e spiraliforme, costellato di visioni surreali e immagini evocative come la descrizione delle fondamenta del «moloch» berlinese, un mefitico mondo sotterraneo di ispirazione romantica – con il suo primo stipendio Hilbig acquista l’opera completa di Ludwig Tieck, posto in esergo al romanzo – in cui i relitti della storia giacciono affastellati e celati alla vista. L’immagine del mondo in superficie, reso dimentico delle catastrofi passate da un cieco umanesimo, si delinea invece come il prodotto delle logiche discorsive del potere, dominato da vuote figure retoriche e reiterate isteresi morfosintattiche che piegano la realtà alla versione desiderata. Questa lingua contaminata e corrotta deforma non solo i rapporti di Cambert, ma anche i suoi fallimentari esperimenti di scrittura letteraria: la schizofrenica «lingua da cantina», di cui pure il protagonista si serve, è già sconfitta in partenza, incapace com’è di penetrare la barriera linguistica con cui gli organi di potere hanno precluso la possibilità di attribuire un senso immediato e intellegibile alla realtà.
Io non è semplicemente l’esplorazione narrativa di una scissione psichica individuale: dagli incontri con i corrotti funzionari nelle caffetterie in Frankfurter Allee e dalle passeggiate divaganti in una Berlino fatta di luce, ombra e nebbia, emerge lo spaccato collettivo di un presente immobile e sprofondato nell’oblio, che nemmeno le voci di scrittori e intellettuali riescono a mettere in discussione. Anche la scena letteraria coeva è infatti caduta nella trappola delle mode post-strutturaliste occidentali che, in ultima istanza, si prestano a consolidare le pratiche ambigue e mistificatorie del potere: una sottile canzonatura in cui si condensa l’acuta critica culturale nonché la lontananza di Hilbig dalle pose postmoderne.
Nella produzione letteraria dell’autore, che mai ha dimenticato le proprie origini proletarie – tra le disposizioni lasciate prima di morire di cancro nel 2007 vi è quella di essere sepolto nel cimitero berlinese di Dorotheenstadt, a sufficiente distanza dal borghese Heiner Müller –, la denuncia è indissolubile dal legame tanto sofferto quanto viscerale con la patria. Se è vero che questa ambivalenza attraversa tutte le sue narrazioni, Io cattura più di ogni altra l’essenza di cosa significhi vivere nell’immobilismo e nella simulazione, in una dimensione pubblica che trasfigura la realtà fino a dissolverla e in cui l’io diventa «io».