All’indomani dell’escalation militare in Medio Oriente, con gli Stati Uniti scesi in campo con Israele contro l’Iran, la premier Giorgia Meloni ha dato le sue comunicazioni in parlamento in vista del Consiglio europeo e del vertice Nato.
Lo scenario d’aula è quello consueto: le opposizioni hanno presentato cinque distinte mozioni, il centrodestra una unitaria, edulcorata dalle asperità dei singoli gruppi parlamentari. Nelle sue premesse, come ha fatto spesso quando ha parlato di guerra, Meloni ha chiesto «dialogo tra governo e parlamento e opposizione per il bene della nostra nazione». Dichiarazione accolta con riserve dal lato sinistro dell’emiciclo, nonostante i toni relativamente pacati della relazione e la telefonata con la leader dem Elly Schlein durante il fine settimana.
In aula la segretaria ha espresso preoccupazione per l’escalation in Medio Oriente e ha accusato Meloni di aver escluso dal suo intervento sia Trump che Netanyahu. Per questo il Pd è «contro l’uso della forza, per il rispetto del diritto internazionale e per un ritorno alla diplomazia», perché «la storia insegna che i cambi di regime con le bombe falliscono». L’appello è stato a «uscire dall’ambiguità e difendere il multilateralismo».
Come ha sottolineato Maria Elena Boschi di Italia Viva, del resto, le intuizioni del governo sul fronte geopolitico non sono state brillanti: il ministro degli Esteri Antonio Tajani «poche ore prima dei bombardamenti in Iran ci rassicurava dicendoci che non ci sarebbero stati» e, all’indomani della sua dichiarazione sul mantenimento dell’ambasciata italiana a Teheran, «la premier ci ha informati dell’ipotesi di spostarla in Oman».
Questa, del resto, è la principale critica mossa al governo Meloni: l’assenza dai tavoli nevralgici in questa fase, sia sul fronte iraniano che su quello della diplomazia per l’Ucraina. Proprio su questo si è accanito il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, che ha ribadito il pacifismo dei 5S (anche marcando la distanza con il resto delle opposizioni) e attaccato sulla mancanza di incisività del governo: «La verità è che lei ha sempre provato a stare nel mezzo, cercando di non scontentare mai le decisioni prese a Bruxelles, Washington o alla Nato».
Iran e Israele
Al netto dei distinguo politici, però, per la prima volta Meloni ha espresso in modo chiaro alcune posizioni, ne ha taciute altre e si è barcamenata in altre ancora. In modo diretto ha comunicato il sì italiano all’aumento al 3,5 per cento del Pil delle spese di difesa e all’1,5 di spese di sicurezza in dieci anni: «Servono per non lasciare l’Italia esposta».
Altrettanto chiaramente ha esposto la sua posizione sul conflitto iraniano: «Consideriamo molto pericolosa l’ipotesi che l’Iran si doti dell’arma nucleare», che «rappresenterebbe un pericolo vitale per Israele» e provocherebbe «un effetto domino che sarebbe molto pericoloso anche per noi», per questo la richiesta a Teheran è di «evitare ritorsioni contro gli Stati Uniti, trovare un accordo sul nucleare con un programma civile senza alcuna finalità militare. Gli Emirati arabi sono un esempio».
Silenzio, invece, sulle scelte dell’amico e alleato Donald Trump, che ha attaccato l’Iran senza annunci. Come le ha contestato l’opposizione, il nome del presidente americano non è comparso nella relazione di Meloni: nessuna critica, nemmeno velata, per l’azione americana. Nemmeno il nome del presidente israeliano Benjamin Netanyahu è stato citato, ma il passaggio sulla guerra nella Striscia è stato forse il più duro da quando i bombardamenti israeliani sono cominciati.
Obiettivo prioritario, ha detto Meloni è «il cessate il fuoco a Gaza, dove la legittima reazione di Israele sta raggiungendo proporzioni drammatiche e inaccettabili», e «una cessazione delle ostilità permanente è necessaria per avviare la sfida della ricostruzione a Gaza, dove i paesi arabi della regione dovranno avere un ruolo principale e dove Hamas non potrà averlo. Siamo pronti a offrire un contributo in cui due popoli e due stati possano vivere in sicurezza».
Le basi militari
Il punto più opaco del suo intervento, invece, ha riguardato l’utilizzo delle basi italiane da parte degli Stati Uniti per proseguire la guerra contro l’Iran. «Nessun aereo militare americano è partito da basi italiane» verso l’Iran, ha specificato, aggiungendo che nessuna richiesta è arrivata e che, qualora accadesse, «dovrebbe avere un passaggio parlamentare». Incalzata dalle opposizioni, tuttavia, ha di fatto adombrato il fatto che il futuro rimane incerto e che, qualora la richiesta arrivasse, la maggioranza deciderà «senza ideologie».
Una posizione che spiega il silenzio sulle azioni di Trump, sulla cui liceità a livello di diritto internazionale Meloni non si è pronunciata. «Ma qui non c’è da decidere ideologicamente ma di decidere sulla base di un giudizio politico: questa guerra è illegale e se è illegale, allora decidiamo che non diamo le basi né ora né domani», è stato l’affondo di Nicola Fratoianni di Avs, condiviso anche da Conte. «Dica che l’Italia non si farà trascinare in questa guerra», ha detto Schlein.
Se le opposizioni hanno marciato a mozioni divise, anche la maggioranza, come sempre capita in aula, ha mostrato le sue diversità interne. Plasticamente, la Lega – che nel suo intervento con Stefano Candiani ha sottolineato l’inutilità dell’Unione europea in questa fase – è rimasta seduta (pur applaudendo) davanti alla standing ovation alla premier tributata da FdI e Forza Italia quando ha detto «io sono la leader di una nazione che conta». La sensazione di fondo, tuttavia, è quella di un parlamento ovattato: comunicazioni senza affondi e un dibattito che ha messo in luce la difficoltà di trovare una posizione univoca davanti ai venti di guerra.