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C’è un dato che colpisce in tutta la vicenda dell’offerta pubblica di scambio con cui Mps vuole acquisire Mediobanca: la banca milanese non vuole essere comprata. Non lo dice con ostilità o arroganza, ma con una strategia chiara, numeri solidi e una proposta alternativa rivolta ai propri azionisti. E allora viene da chiedersi: ha senso un’operazione quando il soggetto coinvolto non ci sta?
Tecnicamente sì. Il mercato lo consente. Una banca può lanciare un’offerta pubblica anche senza il consenso dell’altra, e può tentare di conquistare il favore degli azionisti. Ma qui non siamo di fronte a una semplice fusione. Questa è una battaglia di visione, di modello di banca, di potere su un pezzo importante della finanza italiana.
Da un lato c’è Mediobanca, che promette ai propri soci 4,9 miliardi di euro nei prossimi tre anni, tra dividendi e riacquisto di azioni proprie. Ha presentato un piano industriale aggiornato fino al 2028, che mostra come l’istituto sia in grado di crescere in autonomia, puntando su attività redditizie e a basso rischio: gestione patrimoniale, consulenza alle imprese, credito al consumo. Una banca “responsabile”, come la definisce l’amministratore delegato Alberto Nagel, rivolta a una clientela solida e internazionale. Una banca che ha già dimostrato di saper camminare da sola.
Dall’altro lato c’è Mps, storica ma ancora fragile, che dopo anni di difficoltà e salvataggi pubblici tenta ora un rilancio attraverso un’operazione ambiziosa: assorbire Mediobanca e cambiare completamente pelle. L’amministratore delegato Luigi Lovaglio ha avviato un’offensiva coraggiosa, fondata su un racconto di ricostruzione: unire due banche per creare un nuovo polo nazionale. Ma i conti non tornano del tutto. L’offerta, al momento, è scontata rispetto al valore reale di Mediobanca, e per colmare il divario servirebbero almeno un miliardo e mezzo in più. Anche così, resterebbero forti dubbi su compatibilità, governance e sostenibilità dell’operazione.
Ma, appunto, non è (solo) finanza. È potere.
Chi controlla Mediobanca controlla una parte dell’economia italiana: una quota rilevante in Generali, influenza nel mondo assicurativo, credito alle imprese strategiche, legami profondi con l’industria. Per questo, l’operazione non può essere letta solo attraverso la lente dei dividendi o delle sinergie. È una sfida per il controllo di uno snodo cruciale del sistema finanziario, che tocca anche equilibri politici e istituzionali.
Ed è qui che entra in gioco un altro livello della partita: quello geopolitico e nazionale. Per molti osservatori – e in modo più o meno esplicito anche per certi ambienti governativi – c’è la volontà di riportare sotto regia italiana una parte del potere finanziario oggi in mani straniere, soprattutto francesi. Roma, in questo scenario, è simbolo e obiettivo. La capitale ha perso centralità economica e bancaria negli ultimi decenni, mentre Milano è diventata il cuore finanziario del Paese. Ma proprio a Roma si concentrano oggi diverse realtà bancarie controllate da gruppi stranieri, a partire da BNL (in mano a BNP Paribas). Rilanciare una grande banca nazionale con ambizioni anche su Roma significherebbe rimettere in equilibrio potere, influenza e visibilità.
La risposta di Mediobanca non è stata solo tecnica. Nagel ha lanciato un messaggio netto: non ci stiamo. Non solo perché l’offerta non ci convince, ma perché non vogliamo rinunciare alla nostra identità sotto la spinta di un’operazione che riteniamo sbagliata. È una difesa dell’autonomia, di un progetto industriale preciso, di un modello che guarda lontano.
Decideranno gli azionisti, con ogni probabilità già a luglio. Ma sarebbe ingenuo pensare che la loro valutazione si riduca a una tabella di numeri. Stanno scegliendo tra due idee di banca e, forse, tra due idee di Paese.
E Siena? Al di là delle affermazioni di facciata, rischia davvero di fare la fine manzoniana dei vasi: grande mobilitazione, molto rumore, ma alla fine niente in mano. Né Mediobanca, né un nuovo polo, né una vera prospettiva industriale. Solo l’eco di una strategia costruita più sul desiderio di contare che sulla possibilità concreta di farlo. (P.P)