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MERANO
Quando Alexandra Gelis non è a Toronto, sua città di adozione, la si trova in Costa Rica, in una piccola casa in mezzo a un bosco, a fianco di due cascate e in compagnia solo di essere viventi non umani. In questa solitudine l’artista colombiano-venezuelana sta portando avanti un lavoro sulle piante come «alleate nella resistenza», dice. «Il mondo non è centrato sull’umano: vivendo laggiù mi sento una piccola parte di un sistema estremamente complesso. Ti fa attivare i sensi, spinge il corpo a trovare nuovi equilibri, fin dai gesti più minuti: quando cammini vicino a un fiume, ad esempio, sai che troverai il terreno sconnesso, radici, pietre. Tutto ti chiede attenzione; per stare in piedi, ti chiede di andare fuori da te».
È PROPRIO questa esperienza che Alexandra Gelis porterà a Kunst Meran/Merano Arte (fino al 12 ottobre) per Earthly Communities, il capitolo latinoamericano di un progetto triennale che sta esplorando le culture e le pratiche artistiche non-europee. I curatori, Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi, hanno messo in piega una esposizione-laboratorio con quindici artisti. Di Alexandra Gelis si potrà vedere il suo lavoro sul mondo vegetale, tra installazioni, video e foto, mentre a settembre presenterà una azione performativa.
Le piante, dunque. L’incontro con la Bromelia Gigante è stato decisivo. «Ho imparato a conoscerla, a raccoglierla, cucino a lungo il fogliame, ne faccio una fibra e intesso lunghe strisce di un tessuto organico che sembra corteccia, larghe come il mio corpo e lunghe come la mia casa». A Merano saranno issate come fossero cascate e, così come i video («uso diverse camere e droni e vari microfoni»), testimoniano un mondo naturale che non è un paradiso esotico ma solo ciò che gli umani hanno ripudiato.
IL LAVORO con le piante non è nuovo nella sua intensa carriera. In Colombia, paese di origine di sua madre, ha passato molti anni viaggiando tra le comunità più isolate e interne del paese. A San Basilio de Palenque, a sud di Cartagena, un giorno è andata per un progetto sulle piante medicinali e sui sofisticati saperi ancestrali che chi ci vive custodisce. San Basilio de Palenque è famosa perché è stato il primo insediamento di cimarrones, gli schiavi neri che fuggivano e formavano le loro comunità libere e clandestine.
Nel corso del laboratorio, le persone hanno cominciato a raccontare le storie di violenza vissuta, le scorribande di guerriglieri, narcos e paramilitari, che ormai si fatica a distinguere. «Mi ha colpito subito la storia di Alejandro, grande esperto di erbe, che tanti anni prima aveva dovuto lasciare la sua casa per la violenza in corso, ma lui ci tornava sempre perché le piante che gli servivano crescevano là. Si faceva a cavallo ogni settimana un viaggio di due ore, eppure non riusciva a starci lontano. È quello che io definisco ’avere radici estese’, quelle che nessuno riesce a tranciare. Chiunque abbia una storia di migrazione lo sa».
La violenza, in cui affondano la memoria e il presente di quel paese, si è sedimentata nel corpo di qualsiasi colombiano. «Te la porti addosso, sotto i pori della pelle – dice Alexandra Gelis – Se vedo una borsa incustodita, sento il mio corpo irrigidirsi, la mente in allarme, il cuore in subbuglio, perché ho vissuto la tragedia della Colombia quando saltavano in aria edifici e auto. Eravamo immersi in una guerra permanente». E poi aggiunge: «Sai perché vent’anni fa mi sono innamorata di Toronto? Perché potevo girare per strada in bicicletta alle tre di notte, perché in metro nessuno mi palpava e sapevo che di fronte a un portone nessuna bomba poteva esplodere. Ma resto una latina in Canada e non ho resistito a cercare la mia comunità affettiva, di sex workers, migranti e indigeni».
PER PARTE DI PADRE, invece, Alexandra Gelis è venezuelana. Dice di essere stata affascinata dal sommovimento che Hugo Chavez aveva portato nel paese nel 1999. Così si è buttata nell’euforia dell’onda chavista, realizzando laboratori nei barrios e persino, aggiunge, «con un incarico di fotografa ufficiale, seguivo il presidente quando viaggiava». Ora che il paese è precipitato nel buio, se le chiedi cosa le sia rimasto di quell’esperienza, sospira e ci pensa: «Provo tristezza e dolore: penso a come si è frantumato tutto, ho visto la fame di potere mangiarsi la democrazia, ho visto il Venezuela trasformarsi in un narco-stato, ho visto la gente povera abbandonata e il paese dato in mano al contrabbando di oro, petrolio, legname». Non c’è più tornata, troppo pericoloso documentare: è riuscita a fare un ultimo lavoro video, Venacá (2018) seguendo cinque donne che fuggivano verso la Colombia, lungo i pericolosi sentieri sul Rio Táchira che a Cucuta fa da frontiera.
Terra, boscaglie, corsi d’acqua, piante, piedi nel fango e sopravvivenza: alla fine sempre al mondo naturale si appella, Alexandra Gelis, la sua risorsa materiale e poetica dove si nasconde una qualche ragione per resistere.