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29 Giugno 2025Nel suo esilio danese, Louis-Ferdinand Céline non si capacitava di vedere a piede libero, in Francia, scrittori compromessi ben più di lui, a suo dire, con il regime di Vichy. Tra questi, Jean Giono, di cui una lettera del 1947 abbozza un ritratto folgorante e nella sostanza esatto, anche se la stizza induce il reprobo a qualche eccesso caricaturale: «Vale la pena di leggerlo, direi. Tanto istrionismo, panteismo affettato, rousseauismo forsennato. Bardo delirante della natura, enormemente artificioso. L’insieme suona orribilmente falso e gratuito, ma il dono poetico è indubbio… poesia piuttosto inglese, però, cosa alquanto singolare – nato inglese, direi, sarebbe stato grandioso – naturista lirico affettato… In francese fa un po’ ridere – anzi molto». Giono scrittore inglese, o forse meglio americano: autodidatta, traduttore di Melville, innamorato di Whitman, incline all’avventura, al mito e soprattutto al panismo, ostinatamente proteso a infondere in ogni sua pagina un respiro epico. La sua Provenza selvaggia e sottratta al tempo storico sembra farsi Frontiera, trascolorare in Far West. Quanto di meno conforme all’esprit de finesse della tradizione francese, certo; e al tempo stesso del tutto alieno alla vena popolare e urbana di chi, come Céline, quella tradizione cercava di sgretolarla. Giono, decisamente, nel Novecento francese è uno scrittore anomalo.
Da noi, un’unica sua opera ha avuto davvero successo. Non il cosiddetto Ciclo dell’Ussaro, che pure comprende uno dei rarissimi romanzi di qualche valore dedicati al nostro Risorgimento, Una pazza felicità (1957); ma una favola pedagogica antimoderna, pronta a trasformarsi in catechismo ecologista, L’uomo che piantava gli alberi (del 1953; in Italia lo pubblica Salani): un racconto che esibisce un ottimismo naturista e passatista un po’ stucchevole, cantando le gesta di un pastore che, da solo, riesce a rimboschire una landa desolata. Non è il libro più tipico dell’autore, né il migliore. Ma che effetto fanno i libri importanti di Giono, in italiano? Più che mai, dipende dalla traduzione. Se molte vecchie versioni – per esempio quelle di Ferdinando Bruno per Guanda (fra gli altri titoli: Collina, Un re senza distrazioni, Angelo) – oscillano fra approssimazione zoppicante e sprazzi di un kitsch vagamente dannunziano, tutt’altra tenuta, impeccabile, ha lo stile italiano del grande romanzo del 1934, mai prima tradotto, che l’editore Settecolori manda ora in libreria per le cure di Leopoldo Carra: Il canto del mondo (pp. 294, € 26,00).
In Giono dominano le correspondances orizzontali: similitudini e metafore, presenti letteralmente in ogni frase nelle pause descrittive (che sono poi il grosso del testo), sembrano germinare spontaneamente da un’auscultazione della natura in cui i sensi più legati alla materialità corporea, il tatto e l’odorato, scardinano il privilegio della vista – non a caso, la donna amata dal protagonista, Antonio, è Clara la cieca, alle cui rabdomantiche percezioni è demandata una porzione significativa delle pagine finali, che celebrano l’esplosione sensuale della primavera. La cosa davvero stupefacente, però, è che un romanzo lirico, d’impianto (se così posso dire) sistematicamente sinestetico, nella Francia degli anni Trenta, contragga debiti tutto sommato irrilevanti nei confronti della tradizione simbolista.
Che fra i rari estimatori italiani di Giono ci sia stato il pontefice degli ermetici, Carlo Bo, è frutto di un equivoco: i modelli del Canto del mondo sono forse biblici (Henry Miller, ancora un americano, lo paragonava al Cantico dei cantici), sicuramente omerici – non mallarmeani. Lo dimostrerebbe chiaramente, credo, un’analisi puntuale dell’invenzione figurale, il cui primum è sempre immediatamente sensoriale, mai intellettuale: metafore e similitudini si chiudono circolarmente, nell’immanenza della natura. Così, per fare solo tre esempi, Clara ha «occhi di menta», come foglioline verdi, profumate, brillanti, impenetrabili; fin dalla prima frase del libro, il fiume «scorreva a spallate», mentre in profondità la sua acqua era «morbida come pelo di gatto»; nei capitoli finali, «la pioggia pendeva sotto la tramontana come i lunghi peli sotto la pancia dei caproni». Forse la personificazione degli elementi naturali è affettata e artefatta, come voleva Céline; forse invece riesce a tratti a rinnovare, quasi miracolosamente, il panismo dell’antica Grecia; di certo, è tanto insistita e perfino ridondante da costringere il lettore a darle credito, o a chiudere il libro.
Il panismo pagano si accompagna a un altro tratto smaccatamente epico, antico: la frequente estetizzazione del corpo maschile e della sua energia flessuosa, in armonia con le più sublimi forze della natura – un tratto che non poteva non indurre oggi qualcuno, nell’accademia americana, a svolgere il suo triste temino su Queer Ecology and the Ecology of Queerness in the Work of Jean Giono. Sta di fatto che, in un romanzo che pure annovera tre comparse femminili memorabili (oltre a Clara, le due Gina, zia e nipote, che esibiscono non a caso un nome stendhaliano), i protagonisti sono tutti uomini. Quello epico, si sa, è un mondo maschile, e maschilista. Il pescatore Antonio, quarantenne nel pieno della sua virilità, vive da solo, su un’isola del basso corso di un fiume (che è la Durance, ma potrebbe anche scorrere fra le foreste del Nuovo Mondo) e incarna esemplarmente quell’eroismo anarchico e primitivo che ha indotto la critica degli anni Trenta a parlare, per lui come per altri personaggi di Giono, di ‘tarzanismo’. Risale il fiume, oltre le gole, in una Haute-Durance ribattezzata Rebeillard e più selvaggia e violenta del West, per ritrovare il gemello dai capelli rossi, unico figlio sopravvissuto di Marinaio, anziano boscaiolo (un tempo imbarcato sui velieri) che lo accompagna nell’impresa. Affronteranno un rigido inverno in una cittadina di conciatori, fra le montagne; e uno scontro violentissimo con Maudru, l’allevatore di tori cui il gemello ha sedotto la figlia: il canovaccio è, nientemeno, quello della guerra di Troia.
Ma il cupo Maudru, pur essendo il dominus tirannico del Rebeillard, pur circondandosi di schiere di mandriani che all’occasione si trasformano in spietati bravacci (accoltelleranno alle spalle Marinaio), non è affatto, semplicemente, il «cattivo», come suggerisce Carra, che oltre all’ottima traduzione firma anche la postfazione (La natura e le sue leggi, pp. 285-294, dove Giono è troppo frettolosamente scagionato dall’accusa di collaborazionismo). Maudru non è il Male, precisamente perché Il canto del mondo non è né un roman-feuilleton melodrammatico, né un’avventura trucemente salgariana, ma appunto un romanzo epico, dove al nemico non è negata una barbara e dolente maestà. Nel suo struggimento per un matrimonio finito troppo presto (per colpa sua, ma lui non può capirlo), nel suo rapporto profondo, paradossalmente francescano, con i suoi tori, nel suo silenzio impietrito, Maudru incarna lo spirito selvaggio della montagna; la sua sconfitta non fa che accentuarne la sinistra grandezza.
Di indole individualista e ribelle, Giono non ha esitato, ai tempi di Vichy, a dare protezione a ebrei e altri fuggitivi; eppure, è stato doppiamente complice del nazifascismo: perché ha scritto sui fogli della Collaborazione e ne ha accettato l’incenso (e i soldi); e perché il suo antimodernismo estetizzante, pur discendendo da presupposti filosofici e ideologici in parte diversi, era oggettivamente solidale con il ritorno alla terra predicato da Pétain.Ma Giono è uno scrittore vero, che (a volte, non sempre) sa scavare senza manicheismo nelle ambivalenze del reale: quantomeno, come diceva Céline, «vale la pena di leggerlo».