
Giorgia Meloni, idéologue pragmatique
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13 Luglio 2025La rivoluzione è iniziata con la fotocamera anteriore dello smartphone di Steve Jobs
Come tutti, ogni tanto penso a Travis Bickle. Penso cioè alla scena in cui il protagonista di Taxi Driver si guarda allo specchio e, per ben tre volte, ripete una battuta memorabile: «You talkin’ to me?». Non per niente, secondo una classifica di una quindicina d’anni fa, è il quarto miglior momento della storia del cinema, dunque un’immagine impressa nella memoria collettiva. È curioso a pensarci, ma nel mondo di oggi la dimensione più naturale in cui un momento simile potrebbe manifestarsi non è più il cinema. È facile cioè immaginarselo come un video breve, diventato virale su Instagram o TikTok. In buona sostanza, un post. Per capire che in questo mutamento è in gioco molto più di un semplice cambio di linguaggio, basta considerare un dato: una buona parte dell’umanità controlla uno schermo ogni quindici minuti circa, trascorrendo oltre due ore al giorno a scorrere contenuti disparati, perlopiù effimeri e insulsi, selezionati da algoritmi pensati per tenerci agganciati.
Questo argomento reggerebbe, se gli schermi fossero davvero solo schermi, come quelli delle sale cinematografiche da cui il tassista Travis ci guardava chiedendoci: «You talkin’ to me?». Ma non è così. Quando eravamo seduti nel buio delle sale, sapevamo bene che Travis non parlava a noi, e nessuno tra noi – se non uno spettatore più pazzo di lui – si sarebbe sognato di rispondergli. Se invece un Travis dei nostri tempi postasse un video simile, le reazioni sarebbero innumerevoli, e costituirebbero un esito scontato e auspicato. Ogni secondo, su questo pianeta, c’è qualcuno che parla a uno schermo pur non avendo nessuno davanti, tranne la propria immagine riflessa. Poi posta quel monologo su uno o più social, dove altre persone lo guardano, lo giudicano, lo commentano.
L’inizio di questo mondo nuovo ha una data precisa: il 7 giugno 2010, quando Steve Jobs presentò l’iPhone 4 e la novità che avrebbe cambiato i social network appena nati: l’introduzione della fotocamera anteriore. L’obiettivo del telefono non era più soltanto un prolungamento dell’occhio, ma poteva ribaltarsi e diventare uno specchio. Quando si parla della fotocamera anteriore si cita spesso il selfie. I più avveduti le imputano la fine della fotografia come rappresentazione della realtà e la sua trasformazione in post-fotografia. Che la realtà sia diventata modificabile ovvero instagrammabile – come si sente dire – è una rivoluzione copernicana: stravolge il valore della verità, e quindi il senso dell’esistere.
Ciò che davvero controlliamo ogni quindici minuti è un dispositivo che è insieme schermo e specchio. Pensare che il telefono diventi specchio solo quando azioniamo la fotocamera anteriore è illusione. Quello specchio è sempre presente, come un fantasma in una casa infestata. Si manifesta in forme che trascendono la fotografia. Si manifesta nella matematica, negli algoritmi che ci profilano in base all’uso che facciamo del nostro schermo-specchio. Algoritmi che ci propongono contenuti sempre più simili a noi, o meglio, all’idea migliore che abbiamo di noi. Perché anche loro, in fondo, sono un filtro bellezza.
Torniamo al Travis di Taxi Driver, ma a uomini e donne comuni del passato, persone non in conflitto radicale con la società come Travis. Immaginiamoli guardarsi allo specchio ogni quindici minuti, come oggi. Non è forse folle, oltre che insensato guardarsi allo specchio con una simile frequenza? Per una coincidenza forse non casuale, quindici minuti sono esattamente la durata della celebrità diffusa profetizzata da Andy Warhol nella stessa città e negli stessi anni in cui Travis faceva il tassista: «Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti». Aveva ragione? Sì e no. La celebrità oggi è alla portata di chiunque, ma in un mondo in cui tutti possono essere celebri, nessuno lo è davvero.
Un tempo essere famosi significava diventare immagine. E se c’è una cosa che ci distingue dagli esseri umani del passato è che solo una minoranza dei nostri antenati diventava immagine, e solo in rare occasioni. La natura non ci ha dotati di un occhio ribaltabile. Per millenni gli esseri umani non hanno avuto immagini di sé. Potevano solo immaginarsi, ovvero pensarsi simili agli altri. Se personaggi come Travis e i suoi simili si sentivano diversi, era proprio perché avevano un’immagine parziale di sé. Si guardavano intorno e pensavano di essere come gli altri. Quella somiglianza immaginaria era per loro una prigione. Percepivano una differenza profonda, insanabile, che li portava a ribellarsi, a condurre vite estreme, vedendo negli altri una minaccia.
C’è una frase nelle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij che esprime bene questa frattura: «Io sono solo, loro sono tutti». Nel nostro mondo, proprio perché tutti siamo immagine, disponiamo di un’enorme quantità di informazioni che ci inducono a vederci più diversi dagli altri di quanto siamo. Il che ci spinge a strategie opposte a quelle di Travis. Ci porta a scansare la frattura, a cercare ricomposizione, consenso, accettazione. Che sia un bene o un male è questione oziosa. Biasimare il proprio tempo non ha mai prodotto grandi risultati. È tuttavia certo ed essenziale avere consapevolezza di questa rivoluzione copernicana, per cui, anche se ci sentiamo soli come Travis Bickle, vogliamo essere come loro, come tutti.