Era la sua voce, Alberto Bolaffi, scomparso ieri all’età di ottantanove anni compiuti nel gennaio scorso. Rotonda, golosa, imperativa eppure cameratesca. Sapeva che un’azienda non si dirige, ma si impersona. E, soprattutto, si eredita, facendo da specchio a chi la fondò e la onorò nel tempo. Il nonno, di cui portava il nome, e il padre Giulio, che gli lasciò il timone della ottocentesca Casa di via Cavour 17 andandosene.

Il nonno, il proto-modello di Alberto Bolaffi. Un’anima cosmopolita (conosceva una decina di lingue e forse più, aveva partecipato al primo salone automobilistico di Francoforte, come standista Fiat) che si riverberava nel nipote. Era la carissima ombra che lo scortava giorno dopo giorno, l’artefice di una tradizione che occorreva interpretare via via rinnovandola, mai negandola.

E con il nonno il padreGiulio, scomparso nel 1987. Dopo l’8 settembre forgiò e guidò la divisione partigiana Stellina (il nome della figlia e di una capretta) operante in Val di Susa, l’unica con la divisa alpina, ad ogni combattente assicurando il soldo, lo stipendio, grazie all’attività commerciale che a Torino continuava, in via Peyron, a reggere l’ufficio la mitica signora Bonino.

Il figlio (e la sorella) lo rivedranno dopo il 25 aprile. Con l’istitutrice, lei stessa ebrea, la maestra Gabriella Foa, avevano trovato rifugio in val di Lanzo, a Vonzo, dove – complice la popolazione – attraverseranno indenni il tempo delle leggi razziali, da Stella Bolaffi rievocato inLa balma delle streghe.

Ada Gobetti dirà di Giulio Bolaffi: “Ha una sua borghesissima paura della parola ‘politica’”. L’eguale stoffa borghese che distinguerà il figlio Alberto, un anarchico borghese (secondo il vocabolario di Montanelli), irriducibile al quieto vivere, alle furbesche scorciatoie, al tran tran, al timore per il rischio, per l’hasard, al culto del “particulare”, le derive così invise a un liberale quale Luigi Einaudi.

Bolaffi, o la filatelia (conservando il bozzetto del Penny Black, il primo francobollo mondiale, eseguito da Rowland Hill, qui, non a Buckingham Palace, nonché il primo francobollo giunto in Italia dall’Inghilterra, Belfast-Roma, 1° gennaio 1841). Una passione che assurgerà a impresa, esemplare, un’eccellenza riconosciuta nell’universo mondo. A Giulio Bolaffi, nel 2010, i cugini francesi dedicarono un francobollo, il quinto italiano ad essere accolto nel Pantheon d’Oltralpe, dopo Leonardo, Petrarca, Michelangelo, Lagrange. Noblesse oblige…

Si imporranno le ragioni della Ditta. E così Alberto Bolaffi, che nel 1959 aveva vinto il concorso allievi ufficiali piloti, rinunciò a volare. Ma nel tempo libero non rinunciando a coltivare l’ulteriore suo penchant sportivo: l’equitazione. Osservava: “Il cavallo non fu forse l’ambasciatore sommo della filografia?”.

La filografia, l’arte della scrittura. A risaltare, nello scrigno delle rarità che Alberto Bolaffi fortissimamente volle, custodì, arricchì, non pochi gioielli: dalla tavoletta-lettera in argilla, 1800-1600 a.C., “indirizzata al proprio dio”, proveniente dalla Mesopotamia, al bronzeo attestato di “Honesta missio” che conferiva la cittadinanza a un soldato dell’Asia minore…

Di orgoglio in orgoglio… Ecco il collezionista Alberto Bolaffi aggirarsi fra le teche del suo privato museo: dove incontrare la prima edizione delCapitale, apparso in Francia a fascicoli, e di Totem und Tabu di Freud (1913), un foglio della Bibbia di Gutenberg e la prima carta telefonica del mondo, italiana, 1976, la Teoria della relatività generale(1915), con le correzioni autografe di Einstein, e il messaggio di congratulazioni inviato da Krusciov a Gagarin in occasione del primo volo spaziale (acquistato per 68 mila dollari nel 1993)…Non dimenticando i manifesti: dall’affiche di Metropolis, una delle tre (358 mila dollari nel 1958) al Vermouth Martini secondo Dudovich…E le cravatte, e i profumi, e i foulard, e le esclusive (dalla Juventus alla Ferrari).

Di questi tempi, in luglio, Alberto Bolaffi (che in febbraio ha detto addio alla moglie Nicoletta) celebrava nella tenuta di Sciolze con gli amici, l’amicizia da lui intesa come un istituto morale, la festa del fieno. Una cerimonia che rinviava al racconto di un ulteriore figlio di Sara e di Abramo, Giorgio Bassani, L’odore del fieno. Come non riaprirlo nell’ora del suo addio? “Durante i mesi estivi, l’erba del nostro cimitero è sempre cresciuta con forza selvaggia…”. Indimenticabili i falciatori che “avanzavano adagio, disposti a semicerchio e muovendo le braccia con ritmo concorde…”.

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