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Diciamolo subito: ma davvero le immagini di questa nuova edizione dei Rencontres de la Photographie di Arles sono «immagini disubbidienti» (Images indociles è il tema della manifestazione), come ci suggerisce il direttore Christoph Wiesner? Crediamo proprio di no. E a farlo capire a tutti è stata una protagonista della fotografia mondiale come Nan Goldin, proprio il giorno dopo l’apertura. L’artista, era al Teatro Antico in occasione della cerimonia ufficiale per il conferimento del «Woman in Motion». Un premio importante (assegnato da Kering e Les Rencontres d’Arles) per il suo lavoro che «testimonia la complessità delle relazioni amorose e del potere, dando voce alle donne e alle persone invisibili». Dopo aver ringraziato, l’artista ha semplicemente detto: «Adesso vi faccio una sorpresa». E ha cominciato a proiettare foto della tragedia di Gaza tratte da Instagram, come a dire: sono alla portata di tutti voi, con la distruzione totale, le bombe, i morti avvolti dalle lenzuola sporche di sangue, l’assurda corsa per il cibo che diventa massacro, le donne e i bimbi piangenti, davanti a corpi straziati. Una scelta inaspettata che ha raggelato il clima festoso, dividendo il pubblico tra chi contestava e chi (la maggioranza) applaudiva.
Così, la vera immagine disobbediente è stata proprio lei, la ribelle della fotografia che ha portato ad Arles l’unica voce ancorata alla drammatica realtà del presente. Già, perché in questo mondo dove la fotografia è sinonimo di arte, l’edizione 2025 dei Rencontres appare forse troppo distaccata dai temi che angosciano l’umanità e, invece, eccessivamente ancorata alle ricerche concettuali e intimistiche legate all’indagine di sé, con un (irritante) eccesso (se pur legittimo) alle tematiche di gender e alle problematiche portate avanti dalle comunità Lgbtqia+. Così, dopo l’ennesima indigena transessuale o foto su storie di omosessualità, si sospetta una sorta di omologazione culturale nel voler soddisfare una ritualità consolidata: la necessità del politicamente corretto. Una tendenza che non troviamo solo ad Arles, ma anche in musei e gallerie di tutto il mondo.
Solo i muri di Arles ci parlano senza filtri, oltre le tesi dei curatori e i lavori dei fotografi. Un grande manifesto porta questa nota in inglese: «Una bambina appena nata su un panno bianco, il suo piccolo petto aperto, il suo cuore esposto. La sua mano è staccata dal suo corpo, e lì accanto a lei il palmo è rivolto verso l’alto come se stesse salutando». Ma il manifesto con il titolo No Photo 2025, è completamente nero. Non si vede niente, metafora di una realtà non sempre raccontata, spesso censurata. Solo una didascalia contestualizza e ci aiuta a capire: «Foto di Moataz Azaiza, Gaza, dicembre 2023».
Per i vicoli di Arles cammina anche Alfredo Jaar, artista di fama internazionale, cileno che vive a New York, noto per le sue opere di impegno civile. La sua riflessione è amara: «Ho visto tutte le mostre, ma non riconosco il mondo in cui sto vivendo. In questo momento ci sono 17 grandi conflitti nel mondo e di questo non vi è traccia. C’è solo nei muri della città».
Ma la tesi del curatore Wiesner offre una chiave di lettura diversa: «La fotografia è concepita come strumento di resistenza, testimonianza e trasformazione sociale di fronte alle crisi contemporanee. L’impegno pervade l’intero programma di questa 56ª edizione. Dall’Australia al Brasile, passando per il Nord America e i Caraibi, mentre il mondo è scosso da crescenti nazionalismi, nichilismi e crisi ambientali, le prospettive fotografiche presentate offrono un contrappunto cruciale al discorso prevalente, celebrando la diversità di culture, generi e origini».
Sicuramente, nelle numerose proposte (37 mostre istituzionali e un centinaio off) ci sono moltissime esposizioni davvero importanti e sicuramente cariche di valenza etica. Arles in questi giorni è la vera capitale della fotografia internazionale e vale assolutamente la pena affrontare il viaggio, se non altro per l’energia vitale che qui si respira: mostre con linguaggi diversi, alcune dal taglio storico su archivi importanti (il prodigioso lavoro dedicato a Yves Saint Laurent o quello sulla fotografia anonima), gli omaggi ai maestri di oggi o del passato, altre ancora con la volontà di esplorare mondi inaspettati, se non proprio sconosciuti, come la fotografia australiana, che regala anche la surreale immagine di un uomo mascherato da Captain America orgogliosamente in piedi su una discarica e simbolo di tutta la manifestazione.
Da sottolineare il ritorno a una fotografia tradizionale, meno sperimentale che nel passato, e alla centralità delle donne: da Nan Goldin, appunto, a Erica Lennard, con immagini piene di tenerezza in un’ode contemplativa nel segno della sorellanza e di un neofemminismo; oppure la mostra di Caroline Monnet, una riflessione sociologica sul potere e sul corpo femminile minacciato e condizionato dal colonialismo.
E poi, ancora donne che parlano del mondo maschile, con una attenzione particolare sulla figura del padre: Diana Markosian, con una commovente mostra autobiografica in cui racconta la propria lacerante storia del distacco col padre, voluto senza spiegazioni dalla madre quand’era bambina. Con documenti d’archivio Markosian esplora l’assenza del padre, la loro riconciliazione e il sofferto vuoto del prolungato allontanamento. Camille Lévêque, invece, combina documentario e testimonianze, decostruendo stereotipi legati alla paternità. Immagini di varie tipologie di padri: da i padri assenti a quelli simbolici. Una vera indagine antropologica (durata dieci anni) per una mostra intensa e dalla forte valenza politica.
Quindi Letizia Battaglia: la mostra curata con passione e qualità da Walter Guadagnini, con il titolo Sempre in cerca della vita, presenta i lavori della grande fotografa siciliana dagli anni Settanta sino a metà degli Ottanta, raccontando le diverse stagioni della mafia, e non solo. Ecco le feste religiose, la gente di Palermo, soprattutto la dignità delle persone, la bellezza dei giovani volti, e un’idea sempre viva di speranza. Tra i documenti e giornali dell’epoca, ritroviamo le foto più iconiche. Due esempi per tutti: l’immagine di un ragazzo con il volto celato da una calza, che gioca per strada a fare il mafioso, e il potente ritratto di Rosaria Schifani, vedova di Vito Schifani, guardia del corpo di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo uccisi nell’attentato di Capaci nel 1992, con gli altri uomini della scorta, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo. «La fotografia diventa — anzi, lo è — la storia della vita: mi immergo in una fotografia, che è il mondo. Divento il mondo e il mondo diventa me», ricordava Letizia Battaglia, donna straordinaria, animata da una passione irrefrenabile per la verità.
Giovanna Calvenzi, grande curatrice (ha diretto i Rencontres nel 1998) è felice per la mostra di Letizia Battaglia, ma è anche severa sulle conduzioni recenti dei Rencontres. Calvenzi ha sempre difeso la cultura della fotografia, non soltanto italiana ed è cruda e diretta: «Gli italiani sono i più assidui frequentatori di questo festival, ma a questo festival degli italiani non frega niente». Calvenzi ha ragione. Basti ricordare che i curatori dell’archivio di Paolo Di Paolo e Bruce Weber avevano chiesto agli organizzatori di proiettare il bellissimo film dedicato al fotografo italiano Paolo Di Paolo, una delle voci più importanti del fotogiornalismo umanista. Risultato? Non si sono degnati neanche di una risposta.
A parte queste vicende di liasons dangereuses, Arles presenta almeno cinque mostre da non perdere. Per cominciare, Todd Hido: con The Light from Within, propone paesaggi crepuscolari e case isolate, evocando un senso di solitudine meditativa, ponte tra fotografia malinconica e riflessione sociale. E poi, Louis Stettner: in mostra come ponte tra street photography americana e umanesimo francese, enfatizzando l’impegno sociale attraverso lo sguardo umano. E ancora: David Armstrong (negli spazi di Luma, sotto la torre di Franck Gehry), presente nella selezione dedicata alle relazioni intime, proseguendo un discorso su desiderio, memoria e affetto condiviso. E poi una mostra inaspettata e rivelatrice: Construction Deconstruction Reconstruction presenta la fotografia modernista brasiliana con 33 fotografi di diversa provenienza ma legati da una raffinata qualità di rappresentazione. Una vera scoperta.
Infine, il senso di Yves per la fotografia. Ovvero il rapporto di un grande stilista come Yves Saint Laurent con l’immagine e il senso della rappresentazione (della moda e di sé stesso). Una mostra in qualche modo unica con nomi stellari come Richard Avedon, David Bailey, Cecil Beaton, Guy Bourdin, Robert Doisneau, Horst P. Horst, Dominique Issermann, Jacques Henri Lartigue, Harry Meerson, Sarah Moon, Patrick Demarchelier. Vediamo il volto dello stilista e il suo mondo. E si comprende come il mito si alimenta attraverso la rappresentazione del mito stesso, attraverso la sua moltiplicazione, ossessiva, parossistica, ma sempre immersa nella perfezione dell’armonia e della bellezza. Come dire: proprio come Henri Matisse dipingeva fiori mentre l’Europa era infuocata dalla Prima guerra mondiale, anche noi, qui ad Arles, troviamo un po’ di conforto con le immagini più «docili e ubbidienti» che ci parlano di fascino e incanto.
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