Il tè è servito: con 42 gradi all’ombra non è ciò che bramavo ma mi ustiono volentieri in onore del Sole. Siamo a Parkent, Uzbekistan, nel Sun Institute of Material Science, il «forno solare» inaugurato nel 1987 per studiare il comportamento dei materiali a temperature estreme, utili alla ricerca civile, spaziale e militare. Orientando un piccolo mosaico di specchi, i raggi solari colpiscono una teiera blu a fiorellini che in pochi secondi va in ebollizione, emulando quanto, negli anni 80, accadeva dietro di me a una scala colossale. Mi spiega meglio un radioso ingegnere in camice bianco e denti d’oro, versione post sovietica dell’Archimede siracusano: 62 eliostati orientabili mirano un enorme specchio parabolico, che a sua volta convogliava il Sol dell’Avvenire in un unico punto, toccando i 3.000 °C, al centro di una maxi architettura degna di James Bond. Mentre spalmo altra crema protettiva, mi chiedo come diavolo sono finito in quest’angolo dell’Asia centrale, fuori dalle tradizionali rotte della Silk Road. La colpa è di due libri, editi da Rizzoli New York e Lars Müller: suggeriscono di spingersi oltre le madrase di Khiva e Bukhara per barattare seta e oro con ottimo cemento, folgorandoci con palazzi degni del Tamerlano, che portò a Samarcanda artigiani e operai da tutto il suo regno. Fecero lo stesso i sovietici a Tashkent, l’uzbeka capitale, quarta città dell’Urss per popolazione, quando nel 1966 un terremoto la sconquassò offrendo a Mosca l’opportunità di creare un laboratorio di urbanistica e architettura.
Così si disegnarono immensi boulevard, parchi urbani e tanti edifici sperimentali. Il nostro preferito è il Bazar di Chorsu, dove il mercato delle carni sta sotto a una gigantesca cupola dal duplice aspetto.
Da fuori è azzurra come quelle antiche, ma sembra una smisurata tazza per il tè alla rovescia, ricoperta di ceramiche smaltate a formare l’effigie del fiore del cotone, allora fulcro dell’economia. Dentro invece è un inno all’ingegneria, con un’ipnotica struttura a maglie incrociate che ci ricorda il Palazzetto romano di Pier Luigi Nervi.
Poco distante sorge il Circo Statale, altro disco volante futuristico e «localista» col cemento ricoperto da trafori memori dell’architettura islamica. Ecco il punto. Dopo le colonne di Stalin e il razionalismo di Chruš?ëv, il linguaggio architettonico ai margini dell’Impero tentò il dialogo con le matrici del posto, mischiando «orientalismi» e le visioni tecnico-sociali dell’Urss. Su questo tema si distingue «La Perla», casamento di 16 piani, uno dei pochi non ortogonali in città, ideato nel 1985 dall’architetta Ofeliya Aydinova, che coniugò il tipo abitativo tradizionale (mahalla) con la densità sovietica. Perciò scultoree pareti di cemento si piegano creando a ogni piano degli spazi collettivi, come i cortili delle vecchie comunità. Da perlustrare a fondo è poi la metropolitana, con la stazione dei Cosmonauti in testa, dove tutto è allegoria del grande lancio: pilastri ricoperti di vetro smerigliato sembrano razzi lanciati nell’atmosfera, mentre fondali blu del cielo ospitano medaglioni con i Grandi Eroi e una Via Lattea di cristalli sul soffitto. In altre stazioni, le volte arabeggianti. Più assertivo, ovvero una bestia di cemento, è l’Hotel Uzbekistan, che fa da sfondo alla smisurata piazza dedicata al Tamerlano con la sua facciata traforata come gli schermi pandjara delle moschee. Ci sono poi il Cinema Panoramico, il Palazzo dell’Amicizia tra i Popoli, la Torre della TV e altri edifici ben raccontati dal libro fotografico di Rizzoli e da quello di Lars Müller, un tomo di mille pagine con ricerche certosine, proposte di valorizzazione, scatti di Armin Linke e un’intervista a Rem Koolhaas.
Grazie a tale campagna di studio, sedici opere sono state inserite nella lista dei monumenti nazionali e ora gareggiano per la tutela dell’Unesco. Dietro a tutto c’è la Uzbekistan Art and Culture Development Foundation (ACDF) diretta da Gayane Umerova, a cui si devono tante altre iniziative, come la ristrutturazione del Centro per l’Arte Contemporanea di Tashkent, la Biennale di Bukhara e mostre all’estero sull’arte uzbeka.
In questa cornice, la rilettura del patrimonio degli ultimi decenni dell’Urss partecipa a un processo di ridefinizione dell’immagine di un paese che oggi vuole connettersi al mondo anche dal punto di vista culturale. L’Italia è in prima linea: una parte delle ricerche è stata svolta dal Politecnico di Milano, fornendo così un benefico decentramento di vedute, mentre a Tashkent sorgono i campus dell’Università di Pisa e del Politecnico di Torino. E poi Venezia: abbiamo scoperto il «forno solare» di Parkent grazie al Padiglione uzbeko alla Biennale 2025, curato dallo studio di architettura GRACE, che ne ha messo in scena la storia e la sostanza.
Ad esempio, la struttura fu decorata con opere di ottimi artisti tra cui lo spettacolare Inno al Sole di Irena Lipene, con fiamme di vetro colorato, che sembrano evocare il fuoco sacro dello Zoroastrismo che precedette l’Islam in queste regioni. Il Padiglione espone pezzi originali e ricostruiti (un eliostato, il tavolo della sala controllo, un lampadario, ecc.) e pure installazioni ad hoc, così da proporre virtuose prospettive. Molto è accaduto infatti da quando il sole uzbeko scaldava le competizioni della Guerra Fredda; oggi, anche grazie all’arte e all’architettura, la stessa energia diviene il simbolo di un nuovo avvenire sostenibile.