Poi, chiudeteci in una gabbia e non dimenticate di buttare la chiave
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Roma
Prima delle dieci di sera, quando Andrea Orlando da una festa dell’Unità lancia un appello a Carlo Calenda, «datti una calmata», era questo il barometro in casa dem: la lista “Cocomero”, con i due colori “verde Bonelli” e “rosso Fratoianni”, dentro l’alleanza. Carlo Calenda dentro, Matteo Renzi però fuori. Alle dieci di sera però scoppia il temporale: «Ieri Calenda si è candidato premier, oggi ha censurato gli interventi che non gli piacevano dentro alla Direzione del Pd. Domani ci chiederà una foto con la maglietta di Azione come condizione per fare l’alleanza? Datti una calmpata, perché se vogliamo farla questa cosa, dobbiamo fare in modo che cose diverse stiano insieme». Esplode così quella resistenza della sinistra «ad alleanze in contraddizione con la nostra linea», Letta è avvisato. Malgrado il segretario dica «la sinistra è il Pd, il più grande partito ambientalista in Europa», Orlando e compagni friggono e temono che, con Calenda-Renzi-Gelmini e senza i 5stelle, si sposti il baricentro al centro.
Calenda fiuta il pericolo e già nel pomeriggio mette le mani avanti: «Se il Pd vuole fare un’alleanza con M5s dopo il voto, noi non ci stiamo». Lo scontro è servito, tutto in alto mare. Peccato, perché l’arruolamento dei rosso-verdi è molto gradito a Letta per levare acqua al mulino di Conte («possiamo arrivare al 5%», prevede Nicola Fratoianni). Molto meno gradito sarebbe invece un Renzi mina vagante nell’etere elettorale. Per i paradossi della politica, i due ex nemici Enrico e Matteo la vedono allo stesso modo: vorrebbero che accanto alla lista “dem e progressisti” e alla lista “Cocomero”, campeggi sulle schede un listone centrista con dentro tutti: Calenda, Gelmini, Renzi, Di Maio, Tabacci, Bonino, Carfagna. Mentre Toti viene dato in rientro sul centrodestra. «Anche il 2 per cento di Renzi può fare la differenza in molti collegi uninominali e nella ripartizione proporzionale dei seggi di tutta l’alleanza», dice un parlamentare dem. «Senza di noi non toccano palla in 45 collegi», taglia corto un renziano. Ma non ci sono solo le liste, ci sono anche i social: lo staff di Letta sta organizzando una squadra di giovani e professionisti (con un’agenzia ad hoc) per tenere testa alla Bestia di Salvini. Terreno cruciale per competere, ritardo da colmare in fretta.
La grana della Boschi in lista
Nel ramo alchimie, il problema numero uno è convincere Calenda a non andare da solo: «Molti nel Pd preferiscono i grillini a me», si irrita lui. Letta cuce e ricuce, teme anche il fattore Renzi. «Enrico non può far entrare Matteo nella nostra lista, altrimenti scoppierebbe il Pd», allarga le braccia uno dei più alti in grado; e visto che «neanche Calenda vuole caricarselo», il rischio è che l’ex segretario corra da solo. Ettore Rosato sta già preparando le liste di Italia viva. Il problema è che – a sentire i boatos di Palazzo – Renzi vorrebbe avere troppe candidature: per sè, Bonifazi, Boschi, Bellanova, Rosato e Faraone i nomi che girano nei capannelli.
Ecco spiegata una delle uscite di ieri del leader dem: quando Letta dice «queste elezioni sono per noi un tappone dolomitico, tutto in salita, incredibilmente difficile», intende che si parte indietro rispetto alla destra e bisogna colmare il divario, arruolando tutti nella coalizione.
E quando dice «io voglio metterci, oltre alla determinazione, una certa scientificità», intende che ogni candidatura va pesata per vincere.
Molti sindaci e big in campo
Ha un bel da fare dunque il segretario a mettere insieme l’elenco di nomi come Gianrico Carofiglio, Elly Schlein, Mauro Berruto, ex ct della nazionale di pallavolo. E a registrare «no grazie» che pesano come quello di Goffredo Bettini. Ieri poi ha riunito cento sindaci in call, in testa Antonio Decaro, Dario Nardella, Giorgio Gori, per chiamare alla lotta quelli in scadenza o scaduti da poco, come il sindaco di Rimini, Andrea Gnassi, tra quelli che verranno candidati. Letta ci conta molto per fare la differenza con la destra. «I sindaci sono la politica vicina alle persone».
Meloni, l’uomo forte del Pd
Ed ha un bel da fare l’uomo ombra del leader, il coordinatore della sua segreteria, Marco Meloni, «un cognome sbagliato», scherza lui: ex deputato, classe 1974, sardo, unico della direzione Pd a non votare il siluramento di Letta da Palazzo chigi nel 2014, oggi è il plenipotenziario delle liste dem. In pratica l’uomo più potente del partito. Il quale non procede per rappresaglie, tanto che Andrea Marcucci, ex capogruppo, renziano di ferro, dovrebbe avere il terzo posto nel listino proporzionale della Toscana, un seggio sicuro. Non escludere nessuno che possa portare in dote voti è il suo refrain. Raccontano le voci di Radio-lista, i boatos dei gruppi dem, che una cosa più di altre preoccupi Letta: che a dispetto della Bonino, ancorata ai progressisti, Calenda decida di staccarsi per capitalizzare voti; e che solo in quel caso si prenda Renzi per evitare il compito proibitivo di raccogliere le firme su un simbolo in agosto. E portando in dote a questo terzo polo un volto mediatico come Mara Carfagna. Letta, in quel caso sarebbe indebolito nella gara contro la destra di Meloni, più forte e meno frammentata. Ecco perché la corte a Calenda è incessante, ora dopo ora.