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La finale di Cincinnati tra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz è stata attesa come la grande sfida dell’estate. Invece è durata appena ventitré minuti. Sinner è entrato in campo già provato, e il suo corpo non ha risposto. Dopo pochi scambi si è visto che qualcosa non andava: il punteggio segnava 5-0 per Alcaraz quando Jannik si è fermato, con il viso pallido e lo sguardo vuoto. Ha detto solo: “Non ce la faccio… mi dispiace.”
In quell’attimo, in un’epoca che vuole solo supereroi perfetti e indistruttibili, un campione ha mostrato la sua fragilità. E proprio per questo va amato. Non per i punti spettacolari o per i trofei, ma perché ha avuto il coraggio di dire la verità, di mostrarsi umano davanti a tutti.
Da lì la scena è cambiata. Alcaraz è andato verso di lui, lo ha abbracciato e lo ha aiutato a reggersi. Poi ha preso il pennarello e ha scritto sulla telecamera: “Sorry Jannik ☹”. Un gesto piccolo, ma enorme. Non c’era bisogno di altro.
Il pubblico è rimasto spiazzato. Si aspettava una battaglia, ha ricevuto un frammento di verità. Non c’era il trionfo, non c’era la spettacolarità, c’erano due ventenni che si rispettavano e che hanno saputo riconoscere la fragilità dell’altro.
Alcaraz, mentre alzava la coppa, non ha avuto neppure la faccia di chi esulta davvero. Sembrava più dispiaciuto che felice. E Sinner, seduto, ha trovato ancora la forza di stringergli il polso e di dirgli: “So che non volevi vincere così.”
È stato un abbraccio che ha detto tutto: la rivalità, la fatica, la complicità. Federer e Nadal ci sono arrivati dopo anni di duelli. Sinner e Alcaraz, invece, ci sono già. Forse è per questo che colpiscono così tanto: perché dietro racchette e classifiche mostrano la semplicità di due ragazzi che, davanti al mondo, hanno saputo dire con un gesto “ti capisco”.
A Cincinnati non abbiamo visto la partita che tutti aspettavano. Ma abbiamo visto qualcosa che resta: un abbraccio, e una frase semplice che ha reso un campione ancora più umano.