
L’integrazione che non avrei fatto: quando i vertici vendono, il segnale è chiaro
12 Settembre 2025
Torno a riflettere sull’affermazione di Imre Toth (1921-2010) «Dio non è morto ad Auschwitz» ragionata in Essere ebreo dopo l’olocausto. Lo faccio ponendomi di fronte allo sterminio che insanguina, da due anni ormai, le terre della Bibbia, nel tentativo di pensare l’‘enormità’ di quella morte che a giudizio di Toth, non comporta la morte di Dio. Dio vive tuttavia, ad onta della negazione della parola mosaica del Non uccidere che, secondo Toth, è ciò che qualifica profondamente l’essere ebreo. E non soltanto l’essere ebreo, ma il patrimonio indistruttibile del Non uccidere che l’ebreo ha portato all’umanità. E questo Non uccidere che diviene sterminare, annientare, non comporta la fine di Dio. La scelta di uccidere, che la legge mosaica interdice, resta tuttavia nella libera disponibilità dell’uomo. Lo sterminio è cosa di uomini, Dio non c’entra.
Nel diario manoscritto che Salmen Gradowski, membro del Sonderkommando del Crematorio IV di Auschwitz II Birkenau, redige nel 1944 e riesce a salvare interrandolo, si legge che molti si chiedevano, a un Dio che resta muto, «perché mai innalzare lodi, davanti a questo oceano di sangue ebreo, implorare Colui che non vuole ascoltare». Altri invece, onorano ogni giorno Dio onnipotente: egli sa, dicono, «che tutto quanto è fatto e commesso contro di noi è voluto da un potere superiore, il cui disegno ci rimane impenetrabile».
Nel 1984 Hans Jonas (…) scrive in Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica: «di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature fatte a sua immagine e somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto». Continua Jonas: «Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non volle, ma perché non fu in condizione di farlo. Dio ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo». Dio recede così dalla sua onnipotenza, come Jonas argomenta: «La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta – una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare sé stesso – un atto infine dell’autoalienazione divina». Jonas e Toth, dunque, negano entrambi che la sterminio coincida con la morte di Dio.
Con il proposito di lumeggiare l’affermazione di Toth, mi rifaccio a un testo cristiano che risale al 380 d.C il De mortuis di Gregorio di Nissa (330 c.-395 c.), una delle voci più elevate della Patristica, che può tornare forse utile per un approfondimento della questione. Qui Gregorio di Nissa ragiona su cosa effettualmente significhi la morte di ciascun uomo. Quando egli sarà fuori dal luogo in cui esistono i sensi e non avrà più i sensi materiali della percezione, della corporeità, che consentano coscienza e consapevolezza. Quando questi sensi non ci saranno più, dice Gregorio di Nissa, in realtà sarà compiuto lo scopo ultimo della vita umana che, per essere segnata dal passaggio della morte, è un cammino che porta al ritorno all’origine, ossia alla somiglianza dell’uomo (la parola greca è omoiosis), la sua intrinsechezza (medesimezza) con Dio. E dunque l’affermazione di Toth «Dio non è morto ad Auschwitz» può, declinata in Gregorio, coordinarsi alla intensa riflessione su che cosa chiamiamo Dio, per rapporto alla morte dell’uomo, una morte che è corporale, ma che propriamente lo restituisce, secondo l’insegnamento biblico, alla sua essenza più vera, quella che lo fa simile a Dio. Nella morte di ciascun uomo si attesta la presenza viva di Dio.
Morire, nel convincimento dei cristiani, è un transito, è un andare verso Dio, accogliere una corrente che sospinge. In una stele funeraria ritrovata in Francia, ad Autun, si legge: «Del pesce celeste divina stirpe, / serba il nobile / cuore, tu hai, tra i mortali, accolto / la perenne corrente delle acque divine».