Ci sono corpi che sono conduttori, persone che sono canali. Tutto quello che so di Ghali unisce, apre, mette in contatto: italiano e straniero, margine e centro, il successo e l’impegno, la terra e il cielo. E proprio il cielo mi sembra in qualche modo il protagonista della mattinata passata con lui e gli studenti della scuola media Iqbal Masih di Baggio, che il rapper ha frequentato diciotto anni fa. Se avesse piovuto avremmo dovuto spostarci al chiuso, e la palestra avrebbe richiesto di dividere le classi in due turni: guardo spesso in alto, mentre arrivo in auto nella periferia ovest di Milano, superando la Torre di Rozzano, da cui dico, scherzando col mio ragazzo, di prendere la forza per l’incontro. Ma le nuvole compaiono e vanno via, tutto è pieno di luce. Il cielo tornerà anche in una delle risposte più belle di Ghali: alla domanda su quali ricordi positivi gli abbia lasciato la scuola, il bambino svegliato di notte dalle sirene della polizia, cresciuto, senza soldi e senza padre, nella penombra di quelli che non contano, dice: «Il sole, in questo cortile c’era sempre un sacco di sole. Come oggi».
Ero teso per questo dialogo: sono un suo fan, lo seguo da Ninna nanna e Dende. Quando in Come Milano dice: «Questo è per chi si è sentito solo con un padre che non chiama», riconosco un vuoto che è anche il mio, affollato di presenze, idoli, oggetti magici. Stavo già assorbendo l’adrenalina del personale scolastico e le apprensioni del suo staff, poi i quattrocento ragazzini hanno iniziato a riempire il campo da basket al centro del cortile, e tutto mi è sembrato di colpo facilissimo. È un bagno di realtà, un contro-incantesimo per mezzo dell’esperienza vera: nessun simbolo, portavoce, testimonianza. Non ce n’è bisogno: se ci si mette il corpo, se si fa lo sforzo di metterci il corpo, tutto si fa esatto e il resto non conta. Il tappeto vivente, dalle origini e caratteristiche così diverse da risultare alla fine irrilevanti, mette a tacere ogni feticismo identitario, scaccia all’istante qualunque fantasma sovranista. Ci sediamo e le parole escono da sole, sorretti come siamo da questo mare di occhi che saprebbero spostare gli oggetti, un po’ come in Walo, uno dei pezzi che amo di più. Lui racconta la sua storia, che è poi quella di tanti: nascere con le carte sbagliate, l’immaginazione che è faccenda serissima, l’ardore di un cuore visionario già a dieci anni. Propose lui di far commissionare – a uno dei writer più famosi all’epoca – i graffiti all’ingresso dell’istituto, i professori gli chiedevano aiuto per le faccende digitali e gli allestimenti teatrali: c’era già il direttore creativo, il talento istintivo che si diverte a traghettare l’invisibile nel visibile, a inventare mondi.
Siamo tutti emozionati, a tratti storditi, è una situazione fuori misura, un cortocircuito, come quasi tutto quello che ha a che fare col tunisino-nuova-icona. Alzare il livello, non accontentarsi: fare il rap ma senza sessismo e omofobia, celebrare la madre e l’infanzia, portare a Sanremo gli alieni e il genocidio palestinese, negare la contrapposizione tra arte e politica, crearsi ogni volta la strada che si sente di più. Mentre comincia l’incontro, sul suo profilo Instagram compare una storia in bianco e nero, una raffica di scene di caos e insurrezione, tra luna park, rivolte e clown, e la voce di Ghali che chiude con un «basta» liberatorio. È un assaggio della nuova metamorfosi, già in corso, che inizierà a farsi conoscere con lo show della settimana prossima: il 20 settembre, al Gran Teatro a Rho Fiera, un ciclo si chiude, aprendo, allo stesso tempo, la via per il nuovo album in arrivo nel 2026. Suonerà alcuni brani nuovi e ci saranno incursioni, ospiti, «tante persone»: niente di ciò che ha già fatto, dice. E sbuca da sotto gli occhiali scuri, mentre lo racconta, il fremito del piccolo invasato di vent’anni fa, che parlava con Jimmy, l’amico immaginario, e sceglieva di prendere a modello più Michael Jackson che i capi branco che spezzano il cuore a mogli e bambini.
Ogni volta che una nuvola copre il sole e regala dell’ombra, il tappeto vivente fa un’ola di sollievo: intanto i ragazzi delle domande sfilano uno a uno, chiedendogli tutto: da dove prende l’ispirazione per i brani, se ha mai pensato che non ce l’avrebbe fatta, chi l’ha aiutato quando veniva preso in giro. Quando uno studente vuole sapere del verso «Casa mia, casa tua, che differenza c’è?», Ghali per un attimo esita, poi risponde: «Tu sei italiano?», «Sì», «Cento per cento?», «Sì», «E ti è rimasta impressa questa strofa?», «Sì», «Ecco, per me la risposta è questa».
Prima del grande, sismico selfie finale, e dell’abbraccio collettivo che esonda e, da questo rettangolo di terra, sembra poter durare per sempre e arrivare ovunque, succede una piccola cosa, a cui credo tornerò spesso. Invitiamo sul palco due delle prof di Ghali: quella di Religione – che lo ricorda benissimo, nonostante l’esonero – racconta che, durante una festa della scuola, si era esibito con una delle sue prime canzoni. «Mi avevi molto commosso», dice, «parlava del tuo papà». Tutta la tenerezza che, crescendo, abbiamo sotterrato, rimosso, a cui abbiamo cambiato nome, per un attimo ritorna, e rimbalza imprevista, esibendo una traiettoria di cui non so quanti, qui, oggi, s’accorgono. «Ci sono dei video?», chiede Ghali, sorpreso. E la risposta credo sia negativa. Non la ricordo, ma non è importante: il minuscolo fuori programma ha messo in chiaro la potenza di questa storia d’amore, in cui un buco nero inverte il ciclo e torna supernova.