Majd al-Assar
Tabet al-Nuweiri
Le strade in uscita da Gaza City sono gremite di persone in modo insostenibile, sono intasate di automobili, carretti stracarichi e piccoli veicoli che trainano rimorchi. Intorno a Tabet al-Nuweiri, nella zona di Nuseirat, i residenti raccontano di aver assistito alla più grande ondata di sfollati da quando l’esercito israeliano ha annunciato l’inizio della sua operazione “Carri di Gedeone 2”. Con i soldati israeliani che avanzano sempre più verso il cuore della città, quartieri come al-Sabra e Sheikh Radwan si trovano sotto intensi bombardamenti. Interi grattacieli sono stati ridotti in briciole, compresa al-Mashtaha Tower, rasa al suolo prima che i suoi abitanti avessero la possibilità di mettere in salvo i loro averi.
L’aria è satura del suono assordante dei clacson, dei motori, delle urla dei bambini. I volti delle persone sono esausti e stravolti. Le famiglie sono incerte sulla direzione da prendere. Alcuni trasportano i loro beni su carretti trainati da asini, mentre altri caricano ciò che resta della loro vita a bordo di tuk-tuk traballanti che finiscono per cedere e spezzarsi sotto il peso eccessivo.
Tabet al-Nuweiri – una distesa di colline lungo la strada costiera che collega Gaza Nord con il Sud – è diventata un difficoltoso collo di bottiglia. Sui pendii, le famiglie sono costrette a spingere a mani nude i tuk-tuk fermi, sudando copiosamente sotto il sole. I carretti trainati da asini, carichi di mobili pesanti, porte di legno, grandi serbatoi dell’acqua e infissi di ferro, faticano ancora di più e cedono sotto il peso eccessivo. Gli animali spossati scivolano sui pendii, e a uomini, donne e bambini non resta altro da fare che spingere o tirare a mani nude.
Tra i molteplici mezzi di trasporto utilizzati, prevalgono i grandi camion a pianale, carichi dell’intero mobilio di casa: arredi della camera da letto, divani e mobili lucidi, prove tangibili di anni di fatiche e di risparmi. Oggi quei mobili non andranno ad arredare nuove abitazioni, ma tende. Su entrambe le fiancate dei camion, precariamente in bilico, sono appesi grandi serbatoi dell’acqua. Le famiglie hanno rischiato la vita per portarli a terra dai tetti delle loro case, dove cecchini e droni prendono di mira chiunque osi mettervi piede. Salire in cima a un tetto per recuperare i serbatoi dell’acqua è un’impresa che può portare alla morte, ma nessuno ha esitato a farlo. Dopo ripetuti cicli di sfollamenti, infatti, le famiglie di Gaza hanno imparato una lezione: avere acqua significa poter sopravvivere. Serbatoi e taniche sono quindi i loro beni più importanti: li trasportano nei campi dove potranno essere riempiti, così da avere l’acqua per bere, lavarsi e sopportare il caldo estivo.
Quella a cui si assiste è una scena di estenuazione e resilienza: una marea umana si sposta verso Sud a piccoli passi con quello che resta delle loro case. Trasportano di tutto, mobili, acqua e ricordi, dirigendosi verso tende che promettono una sicurezza solo apparente e, ciò nonostante, continuano a essere per loro l’unica speranza di sopravvivenza.
Una casa intera portata in esilio
Tra ciò che viene portato via, colpiscono in particolare le massicce porte di legno legate ai furgoncini e ai tuk-tuk accanto ai divani e ai materassi. A Gaza, per molte persone una porta è simbolo di dignità e privacy, la soglia simbolica della propria abitazione.
Rami Ahmed Ajuor è sfollato da Sheikh Radwan. Il suo tuk-tuk sovraccarico si è rotto lungo la strada per Deir al-Balah e spiega così il motivo per cui ha caricato le porte di legno di casa sua: «Le portiamo via per farle a pezzi e usare la legna per cucinare».
Rafati racconta di essere anche riuscito ad affittare un appezzamento di terreno a Deir al-Balah dove vorrebbe piantare la tenda per la sua famiglia. L’affitto gli costa quattro shekel (un dollaro circa) al metro quadro al mese, un prezzo non indifferente per una famiglia di sfollati. «Non ho più una casa a cui dire addio», aggiunge. La sua è stata distrutta dai bombardamenti continui e anche il negozio di pannelli solari che possedeva è stato raso al suolo: «Non temo che la strada verso Sud venga interrotta o che la città sia occupata. A Nord ormai non mi resta più niente». Il volto dell’uomo mostra tutto il suo sfinimento e nella sua voce si percepisce la disperazione. «Ho perso il conto di quante volte sono dovuto andare via. Troppe. Quest’ultimo sfollamento mi è già costato un migliaio di dollari, tra trasporto delle mie cose e affitto del terreno per due tende».
Porte e taniche ammonticchiate sui carretti mostrano tutto l’aspro contrasto tra simbolismo e sopravvivenza: le porte delle case distrutte sono trascinate in esilio, destinate a diventare legna da ardere. Le famiglie scappano con ciò che resta delle loro vite e pagano a caro prezzo una zolla di terreno su cui piantare una tenda, aggrappandosi agli aspetti fondamentali dell’esistenza. Lungo la strada all’incrocio di Tabet al-Nuweiri, una donna sulla cinquantina si accascia a terra, respira a fatica. Hanan Mahmoud Obeid è appena fuggita con i dodici membri della sua famiglia – i suoi figli, le nuore e tre nipotini – senza portarsi dietro pressoché niente.
Una marea di sfollati
A perdita d’occhio si vedono carretti, autobus e macchine piene di persone dirette a Sud. Decine di migliaia convergono a Tabet al-Nuweiri, un incrocio sulle colline, lungo la strada principale percorsa da chi sta scappando da Gaza Nord. I venditori ambulanti montano le loro bancarelle nelle vicinanze, dicono di non aver visto prima d’ora una marea umana così enorme di sfollati.
Kamal Washah ha 42 anni ed è un venditore ambulante. Se ne sta accanto alla sua piccola bancarella mentre la folla gli passa accanto. Lui stesso è arrivato appena quattro giorni fa con la sua famiglia, dopo essere scappato dagli intensi bombardamenti dell’esercito israeliano che si è fatto largo nel suo quartiere. Adesso vive in una tenda sulla spiaggia di Nuseirat, in uno spiazzo di sabbia privo dei servizi più elementari e perfino dell’acqua. Così racconta la notte in cui ha dovuto abbandonare la sua casa: «È stata una delle notti peggiori della mia vita. Ci siamo trovati circondati dalle fiamme, senza sapere se saremmo sopravvissuti fino al mattino successivo». All’alba ha venduto i gioielli rimasti della moglie per pagare un mezzo di trasporto per i suoi familiari e i loro beni. Ha insistito per portarsi dietro tutto quello che è riuscito a caricarvi, perfino il pesante serbatoio dell’acqua prelevato dal tetto di casa. «Se l’avessi lasciato al suo posto, sarebbe stato distrutto o rubato», spiega. Adesso, come molti altri, Kamal dice di non temere più che la strada che percorre sia di nuovo interrotta tra Nord e Sud. La voce trasmette tutto il peso della sua rassegnazione: «Ho perso ogni speranza di ritornare a casa. Non c’è più niente a cui fare ritorno».
Dall’alto della collina, l’esodo si allunga a perdita d’occhio. Le famiglie spingono carretti, gli autobus sono carichi oltre ogni limite, i camion su cui sono accatastati mobili e serbatoi dell’acqua formano una lunghissima coda. Questo non è un semplice esodo di persone: ad andare via sono vite sradicate dirette verso l’ignoto.
Il peso della memoria
In lontananza appare all’orizzonte una coppia che cammina rapidamente lungo la strada polverosa. L’uomo tiene in bilico sulla testa una sedia, ha due ceste di uova legate con una corda e fissate al collo, mentre la donna trasporta vari zaini e bagagli a mano. I loro volti evidenziano preoccupazione e fretta, come se ogni loro passo servisse a frapporre più distanza possibile rispetto a ciò che resta della loro casa.
Ibrahim Salah, sfollato da Tal al-Hawa, descrive la strada percorsa come «complessa e irta di difficoltà». Spiega che hanno dovuto percorrerne molta, dal loro quartiere preso di mira con bombardamenti pesanti da carri armati e droni. Ibrahim si è precipitato, adesso cerca di raggiungere i suoi due figli a Khan Younis dove sono sfollati. «Abbiamo percorso centinaia di chilometri per sfuggire da una morte certa», dice. Ibrahim e la moglie sono tornati indietro lungo quella strada pericolosa a recuperare altri loro averi. Poi però sono rimasti indietro e, quando le è stato chiesto il motivo, sua moglie Mariam Salah ha spiegato: «Sono andata sulla tomba di mia figlia, uccisa tre mesi fa. Non avrei potuto andarmene senza salutarla». Poi ha aggiunto: «Non sono triste per casa nostra. Temevo solo che avrebbero chiuso le strade e non potessi recarmi più sulla sua tomba».
Lo scenario testimonia tutto il contrasto tra la sopravvivenza e i ricordi: le famiglie corrono e scappano dai bombardamenti portandosi appresso tutto quello che possono mettere in salvo, ma riescono anche a trovare il tempo di andare a rendere omaggio alle tombe dei loro cari che hanno perduto. Ogni passo avanti lungo la strada è fatto di paura, spossatezza e forti legami con i familiari e i ricordi.
In ogni passo, la volontà di sopravvivere
Sul ciglio della strada in cima alla collina, Shadi Al-Balawi è sdraiato a terra. Cerca di riprendere fiato. Si toglie spine e schegge dai piedi scalzi e il sudore gli cola dalla fronte. Ha spinto un carretto carico di tutto ciò che resta della sua casa distrutta: mobili, taniche dell’acqua, porte e pannelli di legno. «Questo è tutto quello che rimane della mia casa di Al-Zaytoun. L’ho trasportato fino a qui». Quando gli viene chiesto perché raccoglie legna di recupero, aumentando il peso di ciò che trasporta e rischiando di rimanere indietro, Shadi risponde: «È indispensabile. La usiamo come legna da ardere per cucinare. Per acquistare un chilo di legna occorrono otto shekel, circa due dollari, ma non basta per cucinare nemmeno un pasto. Terrò la legna che serve alla mia famiglia e venderò il resto». Il racconto di Shadi riporta tutta la dura realtà di uno sfollamento: in ogni passo, in ogni pezzo di legna recuperata, c’è un mix di spirito di sopravvivenza, rischio e risorsa. Le famiglie si adattano e inventano modi creativi ma pericolosi di rimanere in vita mentre la distruzione imperversa. —
Traduzione di Anna Bissanti